Il… cuore socialista di Edmondo De Amicis (seconda parte)

di GIANCARLO IACCHINI

«Penso che, così com’è ora, la società è tutta organizzata e diretta a beneficio d’una piccola minoranza, che sfrutta tutte le energie dei lavoratori, con la protezione della legge che ha fatto essa sola e per sé sola; che tutto l’edificio si regge sull’ignoranza e sull’abbrutimento delle moltitudini; che è la sola violenza che lo tiene insieme; che questo stato di cose ci corrompe tutti, è come un’infezione nell’atmosfera morale; la causa prima di tutte le più tristi passioni e delle più nefande azioni e dell’affanno di tutti, e della menzogna d’ogni istituzione e d’ogni parola; e che questo stato non può durare, e non durerà, e che è sacro dovere d’ogni uomo onesto il far tutto il possibile perché non duri, se anche si dovesse sconvolgere il mondo».

È il preannuncio del passaggio dalla consapevolezza teorica al concreto impegno politico per cambiare la società: «Bisogna fare una critica costante, infaticabile, implacabile al capitalismo; perché il sentire e comprendere un’ingiustizia è già un principio dell’abolirla».

«Occorre promuovere le associazioni che nobilitano l’individuo, insegnano il coraggio e la perseveranza, fortificano i legami della solidarietà, esaltano lo spirito di abnegazione, sviluppano il sentimento della responsabilità e della dignità». «Fortificare e dirigere la ragione. Coltivare il cuore facendovi nascere l’amore, abbracciando col pensiero le miserie e i dolori di tutti, e desiderando di tutti il bene – non l’odio contro gli individui, perché i mali della società derivano da un ordinamento vizioso, non dalla volontà degli individui – e facendo capire che il nuovo regime non sarà possibile se non con l’equità nel cuore di tutti. Propaganda franca, onesta, leale, aperta, alla luce del sole, senza scoraggiarsi di nulla, senza sperar nulla per sé, con un infinito amore per tutti». «La rivoluzione bisogna che segua prima nei cervelli e nelle coscienze, e questo è lento».

Ma l’evoluzione storica è destinata a sbriciolare l’apparente compattezza della borghesia: «Verranno al socialismo professionisti per cui non c’è più posto nella società, piccoli e medi proprietari in cui sarà morta l’illusione antica nella piccola proprietà emancipatrice degli uomini, cacciati nel proletariato dal crescere continuo delle grandi fortune, giovani che a tutti i piaceri della loro condizione preferiranno quello che viene dal servire la verità e la giustizia». Ed i militanti socialisti sono già un esempio vivente di questa evoluzione e “umanizzazione”: «Sono i migliori perché capiscono che bisogna istruirsi, comportarsi con dignità, rendersi degni del nome di socialisti. Non si ubriacano, non sacrificano una conferenza a una partita alle bocce. Son giovani di cuore, che danno l’ultimo centesimo per aiutare un compagno gettato sul lastrico, che comprano i giornali del partito per chi non ha soldi, e che quando si trovano senza lavoro, sopportano la fame con coraggio, senza commetter bassezze. E quando la maggior parte sarà così… ci vorrà del tempo: io non lo vedrò il nuovo mondo; ma sarà!».

Come dovrà essere questo mondo nuovo? «La creazione d’uno stato di cose in cui nessuno goda senza lavorare, nessuno che lavori senza godere, in cui tutti abbiano abbastanza e nessuno troppo, in cui tutti lavorino direttamente per la società, tutti ricevano un’istruzione, e sia la società stessa che provveda a chi non può ancor o non più lavorare, e non ci sia più né l’esempio né la possibilità della ricchezza acquistata per caso, per astuzia, per frode, per privilegi e col lavoro altrui, che è la prima suprema causa della demoralizzazione, delle cupidigie, delle invidie, dei rancori, di quasi tutti i mali che affliggono la società presente». «La proprietà ha seguito le trasformazioni della produzione. Ora la produzione è diventata collettiva, la proprietà dei mezzi di produzione è rimasta individuale. Di qui tutti i mali e tutti i disordini. E questi non cesseranno che quando cesserà l’antagonismo che li produce».

«Com’è possibile disconoscere che il socialismo porta una concezione più alta, più larga, più nobile della parte e della funzione dell’uomo nella società? Che la formula “tutti per uno e ciascuno per tutti” è più vivificante e infinitamente più vera che il “ciascuno per sé” dell’individualismo borghese? Che unisce di più gli individui nelle famiglie, le famiglie nelle patrie e le patrie nell’umanità? Che è la più capace di suscitare le più nobili attività del nostro spirito e i più generosi ardori del nostro cuore? Se immaginate quel mondo, sarà tanto migliore di quello d’adesso! Gli animi non più inaspriti dallo spettacolo della mostruosa ingiustizia presente, il lavoro diventato umano, la macchina alleggerente il lavoro dell’uomo e non più creatrice d’affamati, un’istruzione sufficiente data a tutti, le invenzioni meccaniche lascianti il tempo a tutti di coltivare lo spirito, non più odi di classe, non più la terra insanguinata per questioni d’orgoglio e primazie nazionali che non hanno il fondamento nel vantaggio di tutti… Tanti delitti di meno, tanti disordini cessati, tanti focolari d’odio spenti!».

Ma i borghesi continuano a ricoprire di infamanti calunnie l’ideale socialista. Alberto si sforza di comprenderne le “necessarie” ragioni sociali (gli interessi di classe), eppure la sua indignazione etica non ne viene affatto placata: «Quasi tutti erano rimasti a quell’idea rudimentale del suo preside che il socialismo significasse: spogliare chi ha poco o molto per vestire chi non ha nulla, dare il governo in mano ai fabbri e ai muratori e mandare i signori alle officine: nessuno lo comprendeva come un principio destinato a rinnovare il mondo economico, e meno ancora come destinato a rinnovare il mondo morale». Molte obiezioni però lo fanno riflettere, lo spingono a studiare più a fondo, con meno “fede” e più razionalità, la dottrina che gli infiamma il cuore: «Alberto, ma tu sei per lo stato che sopprime l’industria e il commercio privato, che resta solo ed unico proprietario di tutto, che regola i prodotti, che governa la vita e il progresso d’un popolo come il cammino d’una mandria di pecore? Dimmi questo soltanto. Dimmi se hai pensato all’assurdità di questo stato prepotente e strapotente, che avrebbe bisogno, per funzionare, d’un sistema burocratico rispetto al quale il nostro è un congegno da bambini, e che riprodurrebbe centuplicati tutti i difetti e gli errori di lentezza, imprevidenza, confusione e spreco che già si rimproverano allo stato attuale».

Era, per sua stessa ammissione, «la parte più debole della dottrina». E la fragilità di questa vaga prefigurazione di uno stato onnipotente, unico proprietario di tutto, fa per un attimo vacillare il suo credo: «Soffermatosi ad ascoltare queste ragioni degli avversari, s’arrestò sgomento. Al primo urto della loro critica che affermava assurda la teoria del valore, soffocata dal collettivismo la libertà individuale, distrutto dall’abolizione della proprietà privata lo stimolo al lavoro, impossibile proporzionare il compenso alla varia natura dell’opera, inconcepibile l’azione di uno stato proprietario d’ogni cosa e incaricato di tutte le direzioni e di tutte le iniziative, gli parve che l’edificio crollasse, ed egli indietreggiò, soverchiato per un istante dall’amarezza d’una gran delusione». Delusione favorita anche dalla sua istintiva diffidenza nei confronti della perfezione irreale «di quei sistemi sociali disegnati come la pianta d’un palazzo o esposti come la tela d’un poema, di quel continuo parlare d’un avvenire di concordia, di pace e d’amore, e quasi d’una felicità futura del genere umano, quando era certo che sarebbero rimaste sempre la morte, le infermità, le torture dell’amore non corrisposto, le ferite aperte dall’ingratitudine, e con le ingiustizie cieche della natura le invidie e gli odi e le discordie, e tutti i più grandi dolori che ora ci premono».

Ma Alberto, proprio attraverso il dubbio, impara a fortificare la sua mente, superando il precedente atteggiamento ingenuamente fideistico: «Non è il caso di stupirsi se mi vedete un po’ perplesso. Ogni fede ha le sue lotte. Non sono che le menti incolte e le coscienze rozze che non hanno mai né intoppi né dubbi. Il cervello di chi studia e ragiona è il laboratorio, non la prigione delle idee». Da qui la ricerca razionale di un socialismo “buono e giusto”, non illusorio e… platonico ma nemmeno violento e oppressivo: «E’ una fiaba che il socialismo voglia uno stato onnipotente e autoritario: vuole uno stato che serva la nazione, che sia subordinato alla società, non che la domini. E non ha da esser un organismo prefisso ed immobile, ma una forza d’organizzazione che si perfezionerà semplificandosi, ripartendo la propria azione in organi secondari, in corpi di governo locali, in un gran numero di meccanismi inferiori, i quali si formeranno per necessità, a poco a poco, sotto l’impulso del nuovo principio a cui sarà informata tutta la vita sociale». Difficile pertanto profetizzare, e fuorviante provare a descrivere in dettaglio, il futuro ordinamento politico nella società senza classi: «Forse il socialismo, continuando ad estendersi, si modellerà sullo spirito generale e sui bisogni di ciascun popolo. Impossibile prevedere se l’armonia dell’economia verrà ottenuta mediante una grande diffusione delle società cooperative – o mediante una produzione collettiva regionale, parziale o nazionale – o se pure la società passerà per uno stadio cooperativo prima di arrivare a un ordinamento socialista, ossia da grandi associazioni, di un numero sempre più ristretto, a una grande associazione unica, che sarà una forma di stato socialista».

Nella sua ricerca della via migliore al socialismo, Edmondo De Amicis – entusiasta narratore, in presa diretta, della liberazione di Roma dal dominio pontificio nel 1870, rigorosamente laico anche nell’applauditissimo Cuore e destinato di lì a pochi anni a pronunciare l’orazione funebre per il fondatore del partito radicale Felice Cavallotti – colora il suo ideale di tinte tipicamente radicali: «E’ assurdo il parlar d’eguaglianza fra gli uomini se è esclusa da questa una metà del genere umano». E proprio la donna avrebbe doppiamente da guadagnare dalla trasformazione della vecchia società; se ne rende conto anche Giulia, l’onesta e affettuosa compagna di Alberto, avvicinandosi a poco a poco, per amore e per bontà, alla fede del marito («Domani è il primo maggio. È giorno di festa. – Essa gli rispose, con un bacio sulla fronte e le più care parole ch’egli potesse udire dalla sua bocca: – È la nostra festa!») e sforzandosi di superare l’ancestrale diffidenza verso le idee anticonformiste, per intravvedere un orizzonte nuovo, «un mondo a lei sconosciuto, un grande ordine di sentimenti e di idee al quale anch’essa poteva sollevare il suo spirito, e in cui, fra tanti altri propositi vasti e generosi, primeggiava il concetto di dare alla donna la libertà, la dignità, l’indipendenza della vita, di far sì che il suo avvenire non dipendesse più soltanto dal suo viso e dalla sua borsa». Una liberazione che si estende a quelle istituzioni entro le quali molto spesso la donna è vittima e prigioniera: «Il socialismo vuol fondare il matrimonio sull’amore, sulla dignità umana, mentre ora non è che un contratto mercantile!». «La famiglia non è un’istituzione immutabile: si modifica e progredisce col progredire della società, col mutarsi della condizione sociale della donna. Questa è molto mutata dal passato e muterà ancora. Come la famiglia d’oggi non è più quella del medio evo, così essa assumerà necessariamente un’altra forma quando la donna sarà affrancata dalla servitù economica e avrà tutti i diritti dell’uomo». «Abolita l’umana schiavitù, causa di tutto il male, l’amore sarebbe rinato con la libertà vera».

La libertà, infine, come cardine del “radicalsocialismo” deamicisiano; a partire però, dialetticamente, dallo smascheramento del “bluff” borghese: non è davvero il capitalismo la… casa della libertà: «Finiamola con questa parola bugiarda. Chi non ha nulla non è libero perché non può aspettare e non si può muovere. Il capitale può aspettare e può muoversi. Non c’è libertà reale di contratto fra chi ha bisogno del pane e chi può rifiutarlo». «La libertà e l’eguaglianza furono una conquista di fatto per alcuni; una parola muta per tutti gli altri. L’eguaglianza non può sussistere fin che l’esistenza del maggior numero dipende dal capriccio o dalla fortuna buona o cattiva posta nelle mani del numero minore, fin che c’è da una parte chi ha tutto e dall’altra chi non ha nulla. La libertà non è che per chi ha mezzi e cultura. Chi non ha né gli uni né l’altra è schiavo della miseria, dell’ignoranza e del caso. Pensaci un poco, papà: è una rivoltante ingiustizia. Se non ce n’accorgiamo, è perché i nostri interessi ci hanno falsata la coscienza». «E come si può parlare di libertà dove nove decimi della popolazione è legata dalla catena del bisogno ai detentori del capitale? Dove tutte le libertà, di stampa, riunione, dimostrazioni, sono vincolate alla condizione di non attaccare la minoranza dominante? La libertà è solo una parola per la gran maggioranza. Non c’è che la libertà d’una lotta rovinosa nel campo industriale ed economico, e la libertà di colui a cui la ricchezza, comunque acquistata, dà l’indipendenza. Tutte le altre libertà sono un fantasma. La prima, la più necessaria libertà manca, e solo il socialismo la può dare: che è il tempo, i mezzi dati al maggior numero, liberato da un lavoro eccessivo e da una lotta disperata per l’esistenza; di esplicare le sue facoltà più nobili e di alzarsi a un ordine più intellettuale di vita».

Ma a ben vedere, anche la libertà di cui godrebbero i commerci nella “libera” concorrenza capitalistica si rivela una pia illusione, e un falso argomento di propaganda: «Come si può opporre ai socialisti la necessità della concorrenza, mentre col crescente e inevitabile accentramento delle industrie, generatore necessario di giganteschi organismi di produzione, d’ogni concorrenza vincitori, noi la vediamo avviata irresistibilmente alla distruzione di se medesima?» «Con tutta la vostra tenerezza per la libera concorrenza, voi invocate l’intervento dello stato per sopprimerla ogni volta che avete un interesse di classe da salvare, ed è assurdo parlar di libera concorrenza quando ogni industria non si sviluppa che accentrandosi, ossia creando un enorme monopolio». «Non c’è libertà di concorrenza dove le forze sociali non sono a disposizione che d’un piccolo numero».

In un’epoca di positivismo trionfante, il socialista De Amicis sembra farsi contagiare dalla fiducia nell’evoluzionismo sociale: «Così non è sempre stato. C’era la schiavitù e il servaggio, e non ci son più; c’era il feudalesimo, c’era il dispotismo, e sono scomparsi; c’era l’ineguaglianza civile e politica delle classi, ed è stata soppressa. Vedi che il mondo è mutato, e se si è mutato, si può ancora mutare». Ma improvvisamente, proprio il saggio amico razionalista fa balenare ad Alberto qualcosa di inquietante e di terribile, che esattamente trent’anni dopo prenderà il nome di fascismo: «Si vedrà allora la borghesia, per uscir dall’angoscia, iniziare una reazione delle più violente. Al momento supremo, io temo che la borghesia si formerà un esercito da sé, col danaro, un esercito di mercenari. Sì, ci sarà un esercito del capitale, formato dagli elementi più feroci della plebe comprati, e che faranno orrori. Avremo una sospensione delle libertà, una legge dei sospetti, le persecuzioni, le delazioni; un periodo in cui si griderà per le vie al socialista come al cane arrabbiato, come all’untore nella peste di Milano… Altro che gli orrori della rivoluzione: sarà ben più orribile la controrivoluzione!».

E qui, “deamicisianamente”, Alberto torna a chiedersi il perché di tanta “cattiveria”, di fronte ai sentimenti invece così nobili di chi vuol guarire il mondo dai suoi mali: «Ma come è possibile? – disse con profonda commozione, battendosi una mano sulla fronte – Io non capisco! Ma perché infuriate tutti a codesto modo quando s’esprime la fede in un miglioramento del mondo? Come non sentite che, se anche l’idea fosse erronea, la passione è generosa e santa? Come mai il cuore non vi dice nulla? Come non sentite almeno un po’ di pietà? Che cos’è quest’astio, quest’ira implacabile contro chi cerca il bene e difende i deboli e vuol scemare la miseria, il dolore, l’odio, il delitto?». Perfino la recalcitrante Giulia, «buona com’è, se comprendesse l’idea ci si attaccherebbe con tutte le sue forze, perché non si può fare altrimenti, quando s’è compresa, e bisogna darle l’anima e il sangue». In questa fiducia basata su amore e bontà, Alberto è sostenuto e confortato fin dall’inizio unicamente dalla sorella, leopardianamente isolata ed emarginata dalla società a causa della timidezza e dell’aspetto fisico: «Tu ascolti troppo la ragione e non abbastanza il tuo cuore. Ci sono delle verità a cui la ragione non arriva che con grandi sforzi, ma che il cuore sente, capisce naturalmente. Oh! Son le verità più importanti. È possibile che il sentimento della pietà e della giustizia c’inganni? Che la verità non sia dalla parte di chi vuole il bene di tutti, e combatte in nome di questo, e contro il suo interesse personale, per un avvenire che non potrà vedere? Perché cercar nello studio una certezza che soltanto il cuore può dare? Questo movimento di idee e di tanti milioni d’uomini verso uno stato migliore è una cosa ben più grande di tutta la scienza che lo combatte o che lo giustifica. Tu lo puoi servire diffondendo dei sentimenti di pietà, di giustizia. Facendo questo, non puoi errare. E non hai da far altro per essere contento».

«Io non desidero che il bene di tutti», si difende Alberto davanti ai suoi amici ora nemici: «A spese d’alcuni, non è vero?», gli ribattono. E lui: «Sarebbe sempre più giusto che il bene d’alcuni a spese di tutti!». Fino all’orgogliosa esclamazione che tronca il diverbio: «Ma se non salveremo il mondo noi col sentimento, lo condurrete alla rovina voi con la vostra ostinazione, con la vostra negazione eterna, col vostro inesorabile egoismo di classe». Osserva De Amicis sul suo alter-ego letterario: «Alla radice di ciascuna di quelle idee, anche di quelle che parevano più strane ed errate, v’era la pietà d’un male, il desiderio d’un bene, un sentimento generoso. Quelle idee che tutti condannavano, erano pur quelle che lo facevano così buono, generoso, disinteressato. Se anche fosse stato un sogno, era un sogno che non potevano avere che le anime nobili». Già: «Se anche questa idea fosse un’illusione, non è essa l’espressione d’una grande aspirazione dell’umanità, antica come il mondo, non è essa il lamento stesso del genere umano – non significa forse una speranza, un desiderio del bene, uno sforzo verso il bene, che vuol essere rispettato e guardato con amore e con simpatia?». «Lei chiama disgraziate idee – tuona Alberto con crescente sdegno – voler distruggere le sorgenti della miseria, dando a tutti il lavoro e il prodotto del lavoro, e crescendo la produzione delle ricchezze con l’associazione e la concordia di tutte le forze, uccidere gli odi, far cessare le disuguaglianze ingiuste, affratellando i popoli, facendo cessare lo spargimento del sangue?».

Al giovane professore di Primo maggio la passione politica è destinata a portare come tragico destino una morte violenta ed assurda, ma quella stessa passione socialista, per Edmondo De Amicis, sarà vita e felicità per la generazione che ha avuto la fortuna di imbattersi in essa: «Sì, la giovinezza dedicata a quell’idea gli pareva la giovinezza più superba e felice che avesse mai goduto altra generazione. Quel culto disinteressato dell’idealità, quell’anelito alle lotte feconde, quel presentimento d’un migliore avvenire per tutti, era quanto di più grande fosse mai passato per l’anima umana dopo il cristianesimo».

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