La questione della libertà è assolutamente centrale nel pensiero “critico” di Herbert Marcuse (1898-1979), celebre esponente della Scuola di Francoforte insieme a Max Horkheimer, Theodor Adorno ed Erich Fromm (tutti emigrati negli Stati Uniti dopo l’avvento del nazismo). Nella sua opera più significativa in tal senso, L’uomo a una dimensione, Marcuse dedica alla libertà come liberazione passi molto chiari: la società occidentale contemporanea, “reificata” e mercificata, è totalitaria come quelle del blocco sovietico, perché impone anch’essa un “pensiero unico” e toglie all’uomo ogni libertà di immaginare altre dimensioni dell’esistenza oltre a quella onnipervasiva e alienante dell’economia e dei suoi materialistici (dis)valori: merce, produzione, consumo, denaro, profitto.
Questa monodimensionalità ormai soffocante getta un’ombra sempre più lunga sulle prospettive di liberazione, come riappropriazione delle facoltà squisitamente umane appiattite e atrofizzate non più solo dal capitalismo come rapporto sociale, ma dallo stesso trionfo della tecnologia e dell’automazione che hanno parcellizzato il lavoro ed anche il… cervello, impedendo la percezione della globalità (vedi anche il Lukács di Storia e coscienza di classe) e la criticità di un pensiero non più in grado di scrutare l’orizzonte al di là di ciò che è dato hic et nunc; incapace, in altre parole, di trascendere l’esistente, nella sua unica dimensione rimasta.
E tuttavia la storia e la filosofia (conoscere il passato e riflettere sul possibile futuro) possono ancora staccare la mente umana dal dato di fatto, far uscire alla luce del sole gli schiavi della famosa caverna platonica, per liberarli dalle catene che li inchiodano ad una realtà falsa e inautentica. E le catene sono innanzitutto quelle del bisogno e della costrizione al lavoro (salariato e alienato): «La libertà dal bisogno è la sostanza concreta di ogni libertà. Nella realtà umana, tutta l’esistenza che si spende per procurarsi le cose necessarie all’esistenza è un’esistenza inautentica, non libera».
La “libertà economica” è il falso dogma della società borghese e del suo illusorio individualismo dell’avere, così come la “libertà dell’economia” rispetto allo stato oppure la “libertà politica” meramente formale (il suffragio universale, nel migliore dei casi), quando nella dimensione autentica dell’essere «la libertà economica dovrebbe significare libertà dall’economia; la libertà politica dovrebbe significare liberazione da una politica su cui i cittadini non hanno alcun controllo effettivo; la libertà intellettuale dovrebbe equivalere alla restaurazione del pensiero individuale, ora assorbito dalla comunicazione e dall’indottrinamento di massa».
Troppi i condizionamenti sugli individui, secondo Marcuse, per poter accettare la retorica “borghese” della libertà; i cittadini vengono piuttosto trasformati in burattini, solo apparentemente senza fili: «I bisogni indotti dal sistema hanno un contenuto e una funzione sociali determinati da potenze esterne, sulle quali l’individuo non ha alcun controllo. La società esige che si sviluppi il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco; il bisogno di lavorare fino all’istupidimento, quando ciò non è più una necessità reale; e il bisogno di modi di rilassarsi che prolungano tale istupidimento». Il grande inganno (che implicherebbe un «grande rifiuto») è compiuto: «La libertà è stata trasformata in uno strumento di dominio. La libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né i servi».
Non sono più le vecchie strutture economiche e quelle concettuali (metafisiche) che ostacolano la libertà, ma paradossalmente proprio le “magnifiche sorti e progressive” esaltate dall’illuminismo e dal positivismo: «Col progresso tecnico la non-libertà, intesa come soggezione dell’uomo all’apparato produttivo, viene perpetuata e intensificata. In tali condizioni il declino della libertà e dell’opposizione è un processo sociale oggettivo». I lumi radiosi della “conoscenza scientifica” hanno accecato anche la morale: «La quantificazione della natura (la sua spiegazione matematica) ha separato la realtà dal bene, la scienza dall’etica. La tecnologia razionalizza la non-libertà dell’uomo e dimostra l’impossibilità tecnica di essere autonomi, di decidere personalmente della propria vita. La forza liberatrice della tecnologia – la strumentalizzazione delle cose – si muta in catena che blocca la liberazione, in reificazione e strumentalizzazione dell’uomo. In tal modo la razionalità tecnologica protegge, più che abolire, la legittimità del dominio, e l’orizzonte strumentale della ragione si apre su una società razionalmente totalitaria. Al contrario, “razionale” dovrebbe essere un modo di pensiero e di azione volto a ridurre l’ignoranza, la distruzione, la brutalità e l’oppressione».
Marcuse propone quindi una diversa accezione della razionalità, che si esprime con la dialettica e resta superiore all’angusta dimensione dell’empirismo: «Prendendo come punto di riferimento l’universo reificato dell’esperienza quotidiana, il positivismo prescinde dalla negazione, da ciò che è alieno e antagonistico. In questo empirismo parla l’individuo alienato e “astratto” di questa società, che esperisce solo ciò che gli è dato, e il cui comportamento è unidimensionale e mutilato. Il mondo è il risultato di un’esperienza ristretta, e la ripulitura positivista della mente porta la mente ad allinearsi con questa esperienza ristretta, mentre il compito storico della filosofia è la dissoluzione intellettuale ed anzi la sovversione dei fatti. La filosofia si avvicina a questo scopo nella misura in cui affranca il pensiero dal suo asservimento all’universo stabilito del discorso e del comportamento, espone la negatività dell’establishment e progetta le sue alternative. Naturalmente la filosofia contraddice e progetta solo nel pensiero, e questo carattere ideologico è il suo destino, che nessun positivismo può superare. Tuttavia, il suo sforzo può essere terapeutico, nel mostrare sia la realtà quale è realmente, sia ciò che questa realtà impedisce di essere».
La filosofia come terapia, dunque, basata su un pensiero critico e negativo rispetto alla soggezione alla realtà data, alla prigionia del presente. Per usare termini (anti)aristotelici, la potenza che prevale sull’atto: «Le contraddizioni che si determinano entro un sistema storico sono manifestazioni del conflitto tra il potenziale e l’attuale. Le idee trascendono le loro realizzazioni particolari come qualcosa che va superato. Così il concetto di bellezza comprende tutta la bellezza non ancora realizzata; e il concetto di libertà tutta la libertà non ancora ottenuta. Questi universali sono quindi strumenti concettuali per comprendere le condizioni particolari delle cose alla luce delle loro potenzialità, e dunque alla luce della loro limitazione, repressione e negazione attuali». La diagnosi sulla «malattia storica dell’Occidente», come direbbe Nietzsche, è in conclusione così riassunta: «Questa società – basata su una travolgente razionalità, motore di efficienza e di sviluppo – è nell’insieme irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani».
Ma qui scatta appunto l’antitesi dialettica, molla del “superamento” (Aufhebung) teorizzato da Hegel ma da lui contraddetto con la ben nota identità di razionale e reale: «Nella misura in cui la società stabilita è irrazionale, la razionalità storica introduce l’elemento negativo – la critica, la contraddizione e la trascendenza. Il pensiero critico si sforza di definire il carattere irrazionale della razionalità data, e di definire le tendenze che portano questa razionalità a produrre la propria trasformazione. Ciò renderebbe possibile una realtà umana essenzialmente nuova – un’esistenza piena di tempo libero sulla base dei bisogni vitali soddisfatti». Si libera il tempo, ed anche la coscienza: «Nella misura in cui la coscienza è determinata dalle esigenze e dagli interessi della società presente, essa non è libera; nella misura in cui la società è irrazionale, la coscienza diventa libera ed aperta ad una superiore razionalità storica soltanto nella lotta contro la società presente. La verità e la libertà del pensiero negativo hanno il loro fondamento e ragione in questa lotta».
Ma qui ritorna l’ombra di un’alienazione ormai introiettata dal pensiero stesso (anche attraverso il lavorio martellante e quotidiano dei mass-media), per cui l’uomo contemporaneo arriva al punto di non rendersi conto di stare vivendo una vita non più autentica. E allora il “rifiuto” e la “ribellione” rischiano di essere una chimera: «Ogni liberazione dipende dalla coscienza di essere schiavi, alienati (ed esistere come strumento o come cosa è servitù allo stato puro). Ma il concetto di alienazione sembra sparire quando gli individui si identificano con l’esistenza che è loro imposta e trovano in essa la loro soddisfazione. Questa identificazione costituisce uno stadio più avanzato dell’alienazione, diventata completamente oggettiva: il soggetto dell’alienazione viene inghiottito dalla sua esistenza alienata. Vi è soltanto un dimensione, che si ritrova dappertutto e prende ogni forma. In questo processo, la dimensione interiore della mente, da cui può partire l’opposizione alla realtà esterna, viene dissolta. La perdita di questa dimensione, in cui il potere del pensiero negativo – il potere critico della ragione – si trova più a suo agio, è il correlato ideologico dello stesso processo materiale per mezzo del quale la società riduce al silenzio e concilia con sé l’opposizione. È precisamente questo spazio interno della coscienza – il solo in cui possa attuarsi la pratica storica trascendente – ad essere escluso da una società in cui i soggetti come gli oggetti costituiscono strumenti di un tutto la cui raison d’etre sta nei successi della sua strapotente produttività».
Giorno dopo giorno la civiltà borghese spinge un po’ più avanti questa barriera psicologica contro le possibili alternative: «Oggi l’aspetto nuovo è l’appiattirsi dell’antagonismo tra cultura e realtà sociale, tramite la distruzione dei nuclei d’opposizione, di trascendenza, di estraneità contenuti nella cultura stessa, in virtù dei quali essa costituiva un’altra dimensione della realtà. Il risultato è l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni e alternative, e nella sola dimensione che rimane, quella della razionalità tecnologica, la prevalenza di una “coscienza felice”. Il che significa sopprimere la storia. La razionalità operativa non sa che farsene della ragione storica. Non può essere che questa lotta contro la storia sia parte della lotta contro la dimensione della mente in cui potrebbero svilupparsi facoltà “centrifughe” tali da intralciare l’integrazione totale dell’individuo nella società? Ricordare il passato può creare intuizioni pericolose, e la società sembra temere i contenuti sovversivi della memoria. Ricordare è un modo di dissociarsi dai fatti come sono».
Ma non tutto è perduto, perché la dialettica storica è sempre aperta e la “confisca” della libertà, da parte dei burattinai sociali, oltre una soglia critica ne riaccende il bisogno: «La necessità che segue dal privilegio di quei gruppi sociali che hanno ottenuto il controllo sul processo produttivo rende tutti schiavi, come risultato della loro libertà. La possibile abolizione di tale necessità dipende da un ulteriore incremento di libertà: la libertà degli uomini che considerano la necessità data come pena insopportabile, del tutto non necessaria». Storia, filosofia e politica allora possono cooperare per dare profondità e spessore ad una vita potenzialmente autonoma, “pacifica” (precisa Marcuse in pieno clima da guerra fredda: nulla di più alienante e lontano dai bisogni reali delle persone!), libera dai condizionamenti del “super-Io” sociale: «come processo storico, il processo dialettico implica la coscienza, la capacità di riconoscere e di impossessarsi delle potenzialità liberanti. In questo modo implica la libertà». Tradotto in esempi concreti, «oggi le qualità umane tipiche di un’esistenza pacifica sembrano asociali e antipatriottiche: il rifiuto di ogni durezza e brutalità, la disobbedienza alla tirannia della maggioranza; un’intelligenza sensibile nauseata da ciò che viene perpetrato; l’impegno in azioni di protesta e di rifiuto».
Una ribellione essenzialmente individuale e antiideologica, ben diversa dai dettami classisti della vulgata marxista di quegli anni (60 e 70): «L’autodeterminazione sarà reale nella misura in cui le “masse” si saranno dissolte in individui liberi da ogni propaganda, indottrinamento e manipolazione, capaci di conoscere e di comprendere i fatti e di valutare le alternative». E consapevoli che non si tratta solo di abbattere, ma di edificare qualcosa di più reale, più “vero”, più autentico, più razionale: «Il progetto trascendente deve dimostrare di possedere una superiore razionalità, nel senso di 1) offrire la possibilità di preservare e migliorare i risultati della civiltà; 2) mostrare che la propria realizzazione offre maggiori occasioni per la pacificazione dell’esistenza, nel quadro di istituzioni che garantiscano il libero sviluppo dei bisogni e delle facoltà umani».
Del resto, «i fatti che convalidano la teoria critica della società sono tutti presenti: l’irrazionalità crescente dell’insieme; lo spreco; il bisogno dell’espansione aggressiva; la minaccia costante della guerra; lo sfruttamento intensificato; la disumanizzazione. E tutti rimandano all’alternativa storica: la possibilità di realizzare un’autentica autodeterminazione degli individui, che dipende da un effettivo controllo sociale sulla produzione e distribuzione delle cose necessarie. Su questo punto la razionalità tecnologica, spogliata delle sue caratteristiche sfruttatrici, è il solo criterio e l’unica guida valida per pianificare e sviluppare le risorse da porre a disposizione di tutti».
Così per Marcuse – che pure fu bruscamente “risvegliato” dalla contestazione del ’68 e indotto a recuperare quantomeno l’ottimismo della volontà, malgrado il cupo “pessimismo della ragione” che si respirava nella sua opera principale) – la dialettica storica salva il futuro ed anche la stessa “civiltà tecnologica”, respingendo qualsiasi fuga dalla società – fosse anche quella sessantottina dei “figli dei fiori” o in stile “into the wild” – verso uno stato di natura che non è mai esistito “in-nessun-luogo” e che è quindi l’unica vera utopia.