Lucio Libertini

di GIANCARLO IACCHINI ♦

LibertiniDalla Federazione Giovanile Socialista a “Iniziativa Socialista”, dal Partito Socialista dei Lavoratori all’Unione dei Socialisti Italiani, dal Psi al Psiup, dal Psiup al Pci, dal Pci a Rifondazione Comunista: qualcuno lo chiamava, per scherzo e con una punta di malizia, lo “scissionista” per antonomasia, ma lui negava quest’apparente continuo slittare a sinistra: «Non sono io che mi sposto sempre più a sinistra – esclamava – sono i partiti che si spostano sempre più a destra; e quindi io, per rimanere fermo sulle mie posizioni e coerente con le mie idee, sono costretto ogni volta a cambiare partito!». Sembra impossibile che siano già passati trent’anni dalla morte di Lucio Libertini (1922-1993), emblema di una sinistra che non si voleva arrendere all’opportunismo ed alla continua corsa verso il “centro” che è il vero “fattore k” (anzi “c”) che blocca la democrazia italiana, impedendo quella dialettica chiara e “pulita”, quello schietto confronto di idee contrapposte e quelle alternative politiche franche e trasparenti che già Piero Gobetti aveva teorizzato di fronte al nascente totalitarismo fascista, erede per molti aspetti dei decenni di trasformismo che da Depretis a Giolitti avevano reso stagnante e putrida l’acqua in cui nuotava il giovane e dilettantesco liberalismo all’italiana.

Da socialista radicale, quale in fondo è sempre stato, all’orgoglio di difendere la tradizione e il “nome” del comunismo italiano dopo la svolta occhettiana della Bolognina. Anche perché, avendo sempre coraggiosamente combattuto lo stalinismo e la logica della “cortina di ferro”, abbandonare gli ideali libertari del comunismo proprio nel momento del crollo di un Muro che di quegli ideali aveva rappresentato l’esatta antitesi, gli sembrava alquanto illogico: se il comunismo era “quello”, allora bisognava diventare “Pds” il giorno della costruzione del Muro, non della sua caduta! E se invece, come lui pensava, i regimi dell’Est avevano frainteso e screditato per decenni la teoria marxiana, allora la loro fine avrebbe finalmente liberato il comunismo da una lunga menzogna. Di qui nel 1991, insieme a Sergio Garavini, quello strano connubio con l’ex filo-sovietico Armando Cossutta per salvare (“pur di” salvare) la permanenza in Italia di un partito alternativo al capitalismo: movimento e poi partito della Rifondazione comunista, in una sintesi anche nominale tra due anime che qualche anno dopo la sua morte si sarebbero non a caso separate (con la nascita del Pdci), e non solo per i contrasti sulla sorte del primo governo Prodi.

Quei pochi “fissati” che negli anni Settanta e Ottanta avevano l’abitudine di leggere per intero i paginoni fitti fitti dell’Unità che riportavano gli interventi al Comitato Centrale del Pci, non dimenticano la sensazione di chiarezza e radicalità che trasmettevano i discorsi di Libertini, specie quando la teoria del compromesso storico cominciava a mostrare la corda, e dietro la prosa professorale e barocca di Alessandro Natta già si intravvedeva l’annebbiamento degli obiettivi teorici e della prassi politica del Partito comunista italiano. Lucio Libertini era sempre quello che reclamava svolte nette e alternative radicali, nelle stanze chiuse della Direzione del Partito come davanti ai cancelli di Mirafiori, dove gli operai si fermavano sempre volentieri ad ascoltarlo, affascinati anche dalla sua grinta e simpatia umana. Insieme a Pietro Ingrao, ma con linguaggio più lineare e trasparente, portava nelle… Botteghe oscure del partito spiragli di luce, ventate d’aria fresca, nuova linfa rigeneratrice; in aperta e leale contrapposizione al sempre più appiccicoso “riformismo” degli Amendola e dei Napolitano.

Del resto il suo instancabile lavoro di fusione tra socialismo e democrazia radicale era cominciato tanti anni prima. Nel 1958, insieme a Renato Panzieri, aveva scritto le Sette tesi sul controllo operaio, in cui rilanciava la necessità della proprietà sociale dei grandi mezzi di produzione, riprendendo e adattando ai tempi nuovi il messaggio di liberazione sociale formulato da Marx e dai suoi più creativi continuatori, come ad esempio Rosa Luxemburg. Diritti individuali e diritti sociali, obiettivi entrambi delle lotte dei lavoratori, avrebbero dovuto a tal punto allargare la democrazia (nel senso dell’autogestione “dal basso”) da “superare il capitalismo” in direzione di un socialismo democratico e radicale. Dove la “democrazia”, pur oltrepassando l’angusto orizzonte borghese e diventando “operaia” e “popolare”, non potrà essere ingabbiata in alcuno schema rigido e precostituito e dovrà accuratamente rifuggire dal dogmatismo ed anche dalla burocratizzazione, che rappresentano una costante minaccia per le formazioni politiche rivoluzionarie e per l’intero sistema dei partiti, nonché per la reale emancipazione della classe lavoratrice.

Lucio Libertini si era ritrovato insieme agli altri grandi “radicalsocialisti” Vittorio Foa e Lelio Basso, al momento della nascita del Psiup, “disperato” tentativo – all’inizio degli anni Settanta – di collocarsi tra la sempre più sterile ortodossia comunista ed il sempre più opportunistico riformismo socialdemocratico. Vent’anni dopo, l’ormai settantenne protagonista di mille battaglie e “inevitabili” scissioni a sinistra ritrovava tutta la sua proverbiale verve ed un entusiasmo contagioso, nel momento elettrizzante del no al Pds e del sì invece alla “rifondazione”, all’insegna di un motto (ed un corrispondente striscione) che a lui piacque moltissimo: “Liberamente comunisti!”. Quando Pannella, armato di un beffardo mazzo di fiori, non riuscì a coronare la sua piccola provocazione ai danni dei “rifondatori”, Libertini esclamò con un sorriso sornione: «Mi dispiace che Marco non sia riuscito a entrare, ma il teatro era troppo pieno: bisogna venire presto alle nostre manifestazioni, se no si rischia di rimanere fuori!».

Più seriamente, nel suo ultimo intervento come dirigente del Pci (che stava per diventare Pds), disse scandendo le parole: «Rifiuto l’idea che il crollo dei regimi dell’Est significhi la fine del socialismo e la vittoria definitiva del capitalismo, la sua identificazionecon la democrazia».Anzi: «Nella nostra epoca le contraddizioni di fondo dell’organizzazione capitalistica del mondo sono nuove e crescenti, e il socialismo, liberato finalmente dalle degenerazioni tiranniche che ne contraddicevano i princìpi, resta più che mai la speranza dell’umanità».

Al momento della morte, il 7 agosto del ’93, Libertini stava lavorando appassionatamente sia alle tesi per il congresso di Rifondazione, sia ad una grande manifestazione di piazza contro la politica liberista e la corruzione dei partiti di governo (le vecchie forze della prima repubblica appena travolte dall’inchiesta “Mani Pulite”) e per l’aumento di salari e pensioni. Quella manifestazione si tenne a settembre, e davanti a 300.000 persone giunte a Roma da tutta Italia fu ricordata la vita combattiva ed esemplare del grande militante del socialismo radicale e del comunismo libertario. Un uomo il quale, ben consapevole della disincantata contraddizione gramsciana tra il «pessimismo della ragione» e l’«ottimismo della volontà», non si faceva illusioni sulle… “magnifiche sorti e progressive” di una modernità che sembrava (e sembra) procedere in direzione opposta rispetto alle grandi idee di pace, giustizia, eguaglianza, solidarietà…: «So che siamo controcorrente, in una fase storica negativa, e tuttavia se un dito indica la luna solo gli sciocchi vedono il dito e non la luna. È la forza delle grandi idee e delle lotte sociali che muove la storia del mondo». Il dito e la luna: metafora realistica ma al tempo stesso ambiziosa e incoraggiante alla quale può ispirarsi ogni persona, gruppo o movimento che umilmente si impegni non per affermare la propria sigla o presenza (il dito, appunto) ma per indicare e “avvicinare” la luna di una società giusta e solidale fondata sulla libertà da ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ed in cui l’uguaglianza si realizzi nelle pari opportunità e negli stessi diritti civili e sociali, affinché sia possibile non l’appiattimento spersonalizzante delle identità ma, al contrario, la libera e preziosa diversità di ciascuno.

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