di GIANCARLO IACCHINI ♦
È quasi impossibile riassumere in una delle nostre schede sui “maestri ideali” un pensiero vastissimo come quello di Karl Marx (1818-1883), le cui teorie filosofiche, politiche ed economiche hanno esercitato sul socialismo – in tutte le sue varianti – la gigantesca influenza che ben conosciamo. Questo però non può significare eludere la questione del marxismo e la necessità di fare i conti con un bagaglio teorico enorme ed assolutamente fondamentale: per la politica, per l’analisi storico-economica del capitalismo, ed anche per il nostro liberalsocialismo radicale. Anche qui, anzi a maggior ragione in questo caso, l’approccio dovrà essere anti-ideologico, cioè critico e laico, in piena sintonia del resto con il metodo “scientifico” del grande pensatore tedesco espulso da mezza Europa e stabilitosi a Londra insieme al suo amico e collaboratore Friedrich Engels.
Bisogna insomma evitare con cura i due errori uguali e contrari: prendere per oro colato ogni tesi ed ogni “virgola” del testo marxiano, giustificando dogmaticamente qualsiasi affermazione fino ad invalidarne involontariamente ogni valenza “scientifica” (come insegna la teoria popperiana della falsificabilità); oppure al contrario far leva sui molti aspetti che appaiono storicamente superati (dopo un secolo e mezzo!) per delegittimare un intero pensiero che oltre a mantenere intatto, senza tema di smentita, il suo valore storico e filosofico, conserva una sorprendente attualità nell’acutissima analisi della crisi del capitalismo (da “rafforzare” semmai, oggi, con i limiti non solo economici ma anche naturali allo “sviluppo delle forze produttive”) e nel coraggio titanico di immaginare un’organizzazione sociale davvero libera e giusta, razionale ed umana. E siccome è questa la chiave più genuina del socialismo di Marx, partiamo dalla libertà come liberazione integrale della persona, come emancipazione radicale, come libertà sostanziale (sulla terra della vita reale) e non soltanto formale (nel cielo dei diritti politici e giuridici). Questo è il fondamentale passo avanti compiuto da Marx rispetto al liberalismo e alla democrazia: l’esigenza di agire praticamente per rimuovere i meccanismi economici che impediscono di fatto, anche se non di diritto, l’effettiva libertà degli individui. E per spezzare queste catene c’era (e c’è) tutto un mondo da rovesciare: il mondo dell’alienazione, della “reificazione” (riduzione a cosa), della mercificazione dell’uomo e del suo lavoro, che costituisce la vera essenza del suo essere sociale.
Partiamo da qui dando subito la parola allo stesso Marx, perché difficilmente si potrebbe essere più chiari di lui. Non è un caso che uno dei primi testi socialisti del giovane filosofo di Treviri (in precedenza giornalista “radicale”), dopo il famoso ripudio della “filosofia tedesca” (motivato dal fatto che «i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, ma quel che conta è cambiarlo»), si sia concentrato proprio sul concetto di liberazione. In alcuni passi straordinari ed attualissimi (benché assai poco conosciuti) dei Manoscritti del 1844 (più volte ripresi nelle pagine mature del Capitale), Marx offre un suggestivo affresco della emancipazione offerta dal suo socialismo rivoluzionario. Una rivoluzione sociale ma anche intellettuale, insieme teorica e pratica, radicale perché non si tratta di sostituire un potere con un altro, un partito con un altro e neppure una classe con un’altra, ma di cambiare completamente la natura del potere stesso: bisogna raddrizzare un mondo rovesciato dalla logica del capitale, della produzione delle merci e del profitto, della progressiva mercificazione dell’uomo e della vita, per rimettere al centro l’autentica natura dell’essere umano, inteso come armonica unità di corpo e di spirito.
Da questo punto di vista, Marx ha subito compreso che il gretto materialismo borghese è altrettanto alienante dello spiritualismo religioso, e il “comunismo” che per contrasto ne deriva rischia di ereditarne la stessa malattia, lo stesso vizio d’origine. Dunque si tratta di essere “materialisti” solo per eliminare materialmente (che è l’unica abolizione che conta) questo mondo materiale alienato e rovesciato: unica condizione per riconquistare (e stavolta a vantaggio di tutti gli individui) la dimensione “spirituale” dell’uomo, liberandolo dal bisogno e dall’oppressione. In questo passo infatti, dopo avere tratteggiato a tinte fosche l’alienazione capitalistica, il fondatore del comunismo moderno mette (profeticamente) in guardia dai pericoli di un comunismo “rozzo e primitivo”, che si limiti a statalizzare la proprietà e cioè lo stesso straniante predominio dell’avere sull’essere. Ed allora la proprietà, diventata generale, non rappresenterebbe affatto una liberazione ma anzi estenderebbe “a tutti gli uomini”, in forma addirittura più alienante e servile, la condizione dell’operaio e del lavoro salariato, sopprimendo la “personalità” ed il “talento” individuale.
Qualcuno ancora oggi si sorprenderà di questo strano Marx “anticomunista”. «Ma io non sono mai stato… marxista!», aveva scherzato (fino a un certo punto) nei suoi ultimi giorni di vita, rivendicando la sua costante autonomia di giudizio ed un metodo di ricerca rigorosamente “scientifico”, cioè critico ed anti-ideologico (l’ideologia è per lui, non dimentichiamolo, una menzogna ed una «falsa coscienza»).
Il suo comunismo è in primo luogo il “regno della libertà”, che combatte e soppianta quello “della necessità”; è «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»; è «un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti», in cui «ognuno dà secondo le sue capacità e riceve secondo i suoi bisogni» e nella quale la conquistata libertà dai vincoli (e dagli orari) del lavoro alienato «mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra; la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».
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«Nel capitalismo, l’esistenza del lavoratore è ridotta alla condizione di esistenza di ogni altra merce. Il lavoratore è diventato una merce. Il lavoro salariato è la completa rinuncia alla libertà, è schiavitù rispetto al capitale, sacrificio dello spirito e del corpo del lavoratore. Il fine dell’economia è dunque l’infelicità della società. L’economia conosce il lavoratore solo in quanto bestia da soma, animale ridotto ai più stretti bisogni corporali; il quale, ben lontano dal poter comprare tutto, deve vendere se stesso e la sua umanità. Ma un uomo, affinché si formi libero, non può restare nella schiavitù dei suoi bisogni corporali, non può essere servo del corpo. Gli deve restare tempo anche per agire e godere spiritualmente.
Per gli economisti l’uomo è solo una macchina per consumare e produrre, la vita umana è un capitale, le leggi economiche regolano ciecamente il mondo; gli uomini non sono niente, il prodotto è tutto. E con la valorizzazione del mondo delle cose, cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Quanto più l’uomo crea dei valori, tanto più egli è senza valore e senza dignità. Quanto più raffinato è il suo oggetto, tanto più è imbarbarito l’operaio; quanto più è spiritualmente ricco il lavoro, tanto più l’operaio è divenuto senza spirito e schiavo della materia.
Nel lavoro l’operaio non si afferma, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale. Il risultato è che l’uomo si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, bere, generare ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente una bestia. Il bestiale diventa umano e l’umano bestiale. Sia ben chiaro: il mangiare, il bere, il generare sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma diventano animalesche nell’astrazione che le separa dal restante cerchio dell’attività umana e ne fa gli scopi ultimi e unici.
L’uomo è una parte della natura, ma il lavoro alienato aliena l’uomo dalla natura e aliena all’uomo se stesso, la sua attività vitale; abbassa la spontaneità, la libera attività a un mezzo, disumanizza l’operaio sia spiritualmente che fisicamente. Il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva appare all’uomo solo come mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica. Ma è la libera attività consapevole il carattere specifico dell’uomo. E la vita stessa appare, nel lavoro alienato, soltanto come mezzo di vita.
L’economia è la scienza più morale! La volontaria rinuncia alla vita e a ogni umano bisogno è il suo assioma capitale. “Il tempo è denaro”: meno mangi, bevi, leggi libri, vai a teatro o a ballare o in birreria, pensi, ami, teorizzi, canti, dipingi, giochi, fai sport ecc., e più lavori e risparmi e fai grande il tuo tesoro, il tuo capitale. Meno tu sei, meno esprimi la tua vita, e più tu hai; più è espropriata la tua vita, più tesaurizzi la tua essenza alienata. Tutto quanto l’economia ti toglie di vita e umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza.
Ma anche il comunismo, nella sua prima forma, è soltanto la generalizzazione della proprietà privata. Il dominio della proprietà di cose gli si presenta così grande che esso intende annullare tutto ciò che non è suscettibile di essere posseduto da tutti, e vuole astrarre con la violenza ad esempio dal talento individuale. Il possesso fisico immediato vale come unico scopo della vita; la prestazione dell’operaio non è soppressa, bensì estesa a tutti gli uomini; il rapporto della comunità col mondo delle cose resta il rapporto della proprietà privata.
Si può dire che la “comunanza delle donne” – in cui la donna procederebbe dal matrimonio ad una prostituzione generale, così come la ricchezza procederebbe dal matrimonio esclusivo col proprietario privato ad una universale prostituzione con la comunità – è il segreto svelato di questo comunismo ancora completamente rozzo e irriflessivo. Ma è dal rapporto tra uomo e donna che si deve giudicare ogni grado di civiltà! Questo comunismo, in quanto nega la personalità dell’essere umano, è soltanto l’espressione conseguente della proprietà privata, che è appunto tale negazione. Quanto poco questa soppressione della proprietà privata sia una reale appropriazione lo prova l’astratta negazione di tutto il mondo della cultura e della civiltà, il ritorno alla innaturale semplicità dell’uomo “povero” e senza bisogni, che non ha ancora sorpassato la proprietà privata, anzi: che non è ancora pervenuto ad essa. La comunità è soltanto comunità del lavoro ed eguaglianza del salario che paga il capitale comunitario, la comunità come capitalista generale. Il comunismo rozzo, prima soppressione della proprietà privata, è così soltanto una manifestazione della bassezza della proprietà privata che intende porsi come comunità, e resta affetto dall’alienazione umana.
Questa proprietà materiale, immediatamente sensibile, è l’espressione materiale, sensibile della vita umana estraniata. La proprietà privata ci ha resi talmente ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo; quando, dunque, esiste per noi come capitale o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato ecc., in breve utilizzato. Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati sostituiti dalla semplice alienazione di tutti loro, dal senso dell’avere.
Ma il senso costretto al rozzo bisogno pratico ha una sensibilità molto limitata. E la soppressione effettiva della proprietà privata, cioè l’appropriazione sensibile dell’esistenza e delle opere umane, non è da prendersi solamente nel senso del possedere, dell’avere, ma dev’essere la completa emancipazione di tutti i sensi e di tutte le qualità umane, la fine della natura egoistica del bisogno e del godimento. Solo allora l’utile sarà diventato un utile umano; e l’emancipazione sarà la riappropriazione dei sentimenti e dello spirito propri e degli altri uomini. Dal che si vede come solo nella socialità e nella energia pratica dell’uomo spiritualismo e materialismo perdano la loro opposizione; si vede come la soluzione delle antitesi teoriche sia possibile solo in modo pratico. Il comunismo come soppressione della proprietà privata è la negazione della negazione, e perciò un momento necessario per l’emancipazione dell’uomo: ma non è affatto, come tale, il fine dell’evoluzione sociale, la forma ideale dell’umana società».
(da Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici)
Ripubblico qui il mio commento precendente, con le dovute correzioni grammaticali.
Già un movimento che si definisce “radicalsocialista”, accomunando il socialliberalismo con il socialismo e il marxismo, dà l’idea di una corrente di mistificazione storica e politica. Di ciò ci si rende meglio conto leggendo proprio questo “saggio di Marx”, dove in realtà quest’ultimo è utilizzato solo a pretesto per affermare una visione “anticomunista di Marx”. Come lo stesso autore Giancarlo Iacchini afferma esplicitamente (“Qualcuno ancora oggi si sorprenderà di questo strano Marx “anticomunista”). E dunque, sarebbe stato molto meglio, vista la corposa introduzione di Iacchini, definirlo il “saggio di Iacchini”. Di Marx, infatti, rimane molto poco; se non fosse per il testo estrapolato dai “Manoscritti economico-filosofici”, che tuttavia viene pure questo “manipolato” secondo la visione dell’autore dell’articolo (con doverose novizie di sottolineature in grassetto). Ma il passaggio che meglio rivela il tradimento di Marx è il seguente: “Il suo comunismo è in primo luogo il “regno della libertà”, che combatte e soppianta quello “della necessità.”” Come al solito, invece di capire il pensiero di un autore, si cerca ini tutti i modi di piegarlo alle proprie visioni. Non ci è dato sapere, a questo proposito, se l’autore dell’articolo abbia mai letto il Terzo Libro del Capitale, in cui Marx spiega esattamente cosa sia e cosa significhi il “Regno della Libertà” che tanto sembra stare a cuore a Iacchini. In quel frammento, il rivoluzionario spiega bene come un “regno della libertà” rimanga pur sempre un regno della necessità: quest’ultima è infatti nient’altro che la struttura sociale di ogni società, indipendentemente dal tipo. Un regno della libertà, per dirla con le parole dello stesso Marx, “potrà fiorire solo sulla base del regno della necessità”. È dunque abbastanza evidentente e lapalissiano che il socialismo non può abolire nessun regno della necessità; ma può soltanto farne prendere coscienza alla società e diffondere l’obbligo di lavoro a tutti i cittadini. Per maggiori delucidazioni, pubblico di seguito l’estratto del Libro Terzo cui ho fatto riferimento. Buona lettura! “Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria.
Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità.
Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità.” PS: La “cessazione” del “lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna” significa soltanto che il tempo di lavoro rimane la produzione della ricchezza; e quest’ultima potrà essere goduta grazie al “tempo di libertà” che consegue allo stesso tempo di lavoro.
Sono Giancarlo Iacchini, il (da te) così bistrattato autore dell’articolo che “tradirebbe” Marx secondo l’Inquisitore di turno (non nel medioevo dell’ortodossia cattolica e nemmeno sotto lo stalinismo del Novecento, ma nel XXI secolo!). Non sarebbe sufficiente deporre anticipatamente le armi e confrontarci “laicamente” tra due visioni e interpretazioni semplicemente DIVERSE? Oppure uno di noi due pretende di avere la verità in tasca, tanto più su un pensiero anti-ideologico per eccellenza come quello di Marx? Ma ecco la mia risposta ad alcune delle critiche sollevate:
1) Sulla presunta “mistificazione storica e politica”, sono… onorato: infatti è esattamente la stessa critica che Benedetto Croce muoveva al liberalsocialismo di Gobetti, Calogero e Rosselli, colpevoli di unire liberalismo e socialismo in nome dei diritti dell’uomo, ovvero di TUTTI gli uomini, cioè libertà = uguaglianza! Lui lo chiamava “ircocervo”, cioè una dottrina immaginaria, e tu sei liberissimo di pensarla allo stesso modo pur partendo dall’opposta sponda politica…
2) Il passo sull’ “anticomunismo di Marx” hai fatto bene a metterlo tra virgolette, come l’ho messo io, perché era evidentemente un paradosso per sottolineare il totale rifiuto da parte di Marx nei confronti del comunismo “rozzo e primitivo” che si limita a trasferire allo stato la proprietà senza cambiare la natura alienante della stessa: il lavoro alienato viene esteso a tutti gli uomini, e si socializza solo l’alienazione e la miseria!
3) Il “saggio di Iacchini”? Beh certo che sì: qua nessuno parla ex cathedra, nessuno è la “vox dei” e neppure “populi”: tutti gli articoli sono firmati e la responsabilità se la prende in toto l’autore. Alla voce sui maestri, troverai tutte le mie schede sui maestri libertari di MRS: saranno una trentina. Non c’è nessun “ipse dixit”: è solo la mia modestissima opinione, che però vale quanto la tua (sorry). Sui grassetti e corsivi, poi, mi sembra un po’ forzato come rimprovero: è normale sottolineare le parti ritenute più importanti per quella che (ripeto) è ovviamente la MIA interpretazione (che poi sia stata “pienamente condivisa” anche dall’ottima redazione di “Karl Marx – pagina italiana” può farmi solo piacere, ma non voglio guadagnare “punti” per questo! 🙂 ).
4) Mi chiedi se conosco “il terzo libro del Capitale”: beh, ci ho dato solo 3 esami all’università, ci ho scritto due tesi di laurea e diverse pubblicazioni sulla teoria del valore e la Zusammenbruchstheorie, compresi gli schemi dell’accumulazione e la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto… Ma la mia resta una semplice interpretazione: solo che il passo che citi conferma in pieno (e ti ringrazio) quello dei Manoscritti del ’44, a riprova della straordinaria continuità del pensiero marxiano, senza le cesure “epistemologiche” favoleggiate da alcuni dei massimi esperti di marxismo.
5) Sul regno della necessità come base e presupposto del salto al regno della libertà, concordo in pieno con quello che dici: mai pensato ad un salto metafisico nel paradiso terrestre. Anzi – e qui confesso che proprio su questo punto il mio marxismo doc originario è andato in crisi col passare degli anni – ad una trasformazione “globale” della società che cancelli TUTTI i mali non riesco più a credere; mi accontenterei di lottare (anche con soluzioni radicali quando servono) per risolvere e superare i problemi sociali piccoli e grandi, guardando più al cammino che al “fine”, anche se continuo a pensare che il fine umanista di Marx sia un’ottima bussola per orientare il cammino… però la stella polare sta sempre in cielo, e sarà difficile avvicinarsi ad essa su questa terra “della (dura) necessità”…
In conclusione, se non fosse per quella punta di acredine avrei molto apprezzato il tuo commento, e comunque te ne ringrazio perché è rigoroso e in pieno stile… marxiano (lui con Stirner – ad esempio – era stato molto più cattivo! 🙂
Ciao Giancarlo,
Anzitutto devo chiederti scusa per il ritardo con il quale mi accingo a risponderti. Ma ho voluto farlo rispondendo puntualmente ad ogni tua affermazione. In secondo luogo devo ringraziarti per la risposta; cosa non scontata quando si interagisce con l’autore di un articolo.
Mi spiace sinceramente che tu l’abbia presa sul personale. In realtà, il mio discorso voleva essere il più oggettivo possibile; per quanto, sempre oggettivamente, non è possibile prescindere dall’autore quando si parla di un testo qualsiasi.
In particolare, per l’acredine con cui avrei impostato il mio discorso, vorrei segnalare che la questione del socialismo è questione prettamente politica e, dunque, spiccatamente soggetta alle espressioni radicali (e talvolta spietate!) che questa comporta.
Tuttavia, talune delle tue affermazioni confermano che alcune, se non altro, delle mie critiche sono corrette. Ad esempio, tu affermi un socialismo che sia “in nome dei diritti dell’uomo, ovvero di TUTTI gli uomini, cioè libertà = uguaglianza!”. Bene. Ma a questo punto dobbiamo capire qual è l’oggetto della discussione: se vogliamo parlare di un idealismo, una economia, un movimento o una ideologia dogmatica. Fai certamente bene, per essere eufemistici, a parlare del socialismo come di un pensiero scientifico e anti-dogmatico. Ciò è certamente vero, ma non è, né dev’ essere, una scusante per associare idee tra loro opposte. Se un’idea è critica e analitica, ciò non significa che sia “aperta” a qualunque tipo di associazione e di accorpamento. A questo punto, potremmo ben affermare che non esista l’identità, come pure taluni teoretici postmoderni vanno sostenendo; ma allora dovremmo anche dubitare che esista il pensiero critico e razionale, giacché dare una definizione a qualcosa e separarla dal resto, è esattamente applicazione della conoscenza e della scienza.
Ora, questa premessa ci introduce al tema di fondo che traspare dalle tue parole: la questione della differenza tra anti-classimo e inter-classismo. Il socialismo realizzato, infatti, altro non sarebbe che una economia, poiché questa è la base di ogni società; e questa economia non conoscerebbe nessuna sorta di distinzione di classe. Ciò è ben diverso dall’inter-classismo, che basandosi sulla stessa esistenza delle classi sociali, le quali rappresentano la sua stessa premessa, non riconosce la priorità e la difesa di nessuna di esse, piuttosto mirando alla pacificazione e al “buon vivere” tra loro. Se il socialismo, in quanto società, è attualmente inesistente in tutto il pianeta, il classismo, al contrario, vi rappresenta il sistema economico dominante.
Dunque ecco che il socialismo pone in essere una questione rivoluzionaria: scegliere la classe di chi lavora ed è oppresso, affinché possa costituirsi potere statale e rovesciare i rapporti di produzione.
Dichiari che socialismo e liberalismo andrebbero uniti per i “diritti dell’uomo”, cioè “di tutti gli uomini”; e qui sorge un altro problema: cosa se ne farebbe l’uomo socialista dei suoi “diritti”?
Per rispondere alla domanda, iniziamo dal concetto di “uomo”. Ogni essere umano che venisse lasciato da solo in una giungla, non soltanto dovrebbe sopravvivere ad altri animali, ma anche alle intemperie alle quali sarebbe naturalmente piegato. Egli non avrebbe alcun diritto, dunque, se non quello valido per tutti gli altri animali: essere predatore o preda. Sarebbe nient’altro che un animale selvaggio, integrato nella catena alimentare insieme ad altri animali selvaggi.
Ne consegue che il concetto di “diritto” è un concetto essenzialmente sociale; e, cioè, è essenzialmente economico. Se l’uomo ha dei diritti, li ha in quanto cittadino, e non in quanto tale.
Dunque, i “diritti dell’uomo”, che non possono esistere, stanno ad indicare una chimera; un feticcio della società borghese e del suo individualismo, che se ne serve come copertura ideologico – dogmatica per coprire la realtà per quella che è: un conflitto tra classi. È piuttosto bizzarro, infatti, pensare che i “diritti dell’uomo” siano santificati da una società che puntualmente e naturalmente non riconosce un uomo-cittadino, bensì un cittadino-classe; il che rende perlomeno ipocrita parlare di diritti dell’uomo, ancorché “universali”.
La realtà è ben diversa: diritti per chi? Per cosa? Con quale economia e quali rapporti di produzione?
Ma in una società socialista, l’uomo avrebbe piena contezza del significato dei diritti che gli spettano da cittadino. E alcun senso potrebbe mai avere l’appello a diritti di un “uomo in quanto uomo”, giacché l’uomo socialista è consapevole della sua determinazione economica. E che tutta la cosiddetta “storia del mondo” altro non è che suo stesso divenire uomo attraverso il lavoro.
Nella opposizione già menzionata tra anti-classismo e inter-classismo, l’unica alternativa valida per spiegare l’accoppiamento di socialismo e liberalismo nel nome dei “diritti di tutti gli uomini” rimane la seconda ipotesi. Solo l’interclassismo può infatti spiegare quale “bisogno” ci sia di collegare tra loro la tesi e l’antitesi, la rivoluzione con la controrivoluzione, la proprietà sociale con la proprietà privata.
Il liberalismo riconosce tra i “diritti dell’uomo” proprio quello alla proprietà privata; la quale è così intesa per via della doppia valenza di questa forma di proprietà: essa risiede nel possesso individuale di un bene, privandone al contempo del relativo godimento chiunque non venga riconosciuto di diritto quale titolare di detta proprietà. In altri termini, essa depriva la stragrande maggioranza della società, del potere di usufruire del bene oggetto di proprietà e di sfruttarlo per gli interessi e i diritti della società.
A questo punto, l’unico motivo spiegabile per l’accostamento di socialismo e liberalismo rimane la pacificazione tra le classi, in riferimento ad una “armonia sociale” che dovrebbe sussistere tra “uomini”, a prescindere dalle loro determinazione economica. Ma ciò non può altro che tradursi in un sacrificio della prospettiva socialista, di una alternativa rivoluzionaria di società, in nome della conservazione del presente: l’ordinamento liberale. Al massimo, con tendenze più o meno radicali di un riformismo sociale.
Per venire, infine, al tema del Regno della Necessità, credo che anche qui vi sia un problema alquanto fondamentale di coscienza e conoscenza. Non è questione di “humanae damnatio” o di male necessario (mi si passi il giochetto di parole!); e non è neanche questione di socialismo come “panacea dei mali”.
Questo fatidico regno della necessità altro non è che l’economia organizzata, il lavoro organizzato, l’organizzazione della produzione. Tale è la base di ogni società, al di là del modello specifico. Ora, il socialismo non può essere altro che questo Regno; ma poiché questo viene liberato dal giogo delle classi, la necessità diviene libera (guarda un po’!) di svilupparsi nel pieno delle proprie forze produttive, dando così modo ai rapporti umani sociali di svilupparsi essi stessi in libertà. Questo è quanto il socialismo va affermando ormai da secoli (ed è un eufemismo!).
L’idea per la quale il dominio della necessità dovrebbe essere un male da abbattere, con l’avvento di un dominio della libertà, idea che si è fatta strada prevalentemente con i movimenti del ’68 e la loro onda lunga fino agli attuali movimenti “alternativi”, oltre a rispecchiare perfettamente l’impostazione classista che antepone regolarmente necessità a libertà, stravolge completamente il significato comunista della risoluzione del contrasto tra libertà e necessità.
Ma non ci si deve stupire più di tanto parlando del ’68; un movimento che, di fatto, demoliva la prospettiva della rivoluzione e affermava quella della “contestazione”. Anzi, la contestazione diventa essa stessa rivoluzione e la “libertà”, per quanto sopra esposto, diventa letteralmente immateriale, spirituale e individuale. Ma il socialismo è un’altra storia.
Spero di averti risposto in maniera esaustiva e di aver chiarito talune mie critiche prima esposte.
Saluti.
Grazie Francesco della dettagliata puntualizzazione. Ho letto e riletto il tuo testo e devo confessare che concordo in pieno (e su tutti i punti) con quanto da te scritto, e sinceramente non trovo nulla da controbattere. Che ciò significhi una mia incoerenza (o quantomeno scarsa chiarezza) oppure un tuo fraintendimento delle mie posizioni, poco importa: in genere, preferisco “spiegare” che controbattere: è più produttivo. Sottolineo solo la questione dei diritti: non si tratta di diritti di natura, che non esistono (niente di più materialmente falso del mantra “all men are created equal”!), ma di conquiste strappate attraverso durissime lotte sociali, fino ai nostri giorni e senza paradisi terrestri all’orizzonte. Vero: Marx non amava parlare di diritti, e nemmeno di morale e di giustizia: e infatti su questo preferisco usare un linguaggio diverso e non più economicistico, rivalutando la sfera etica e volontaristica (come dicevano Antonio Gramsci, Rosa Luxemburg o Jean-Paul Sartre; anzi farei prima a dire: TUTTI i rivoluzionari dell’800 e del 900!). Ma la cosa bella, studiando la trentina di “maestri di libertà” che figurano nel nostro sito, è la ferma e unanime convinzione che senza le conquiste sociali i diritti politici e civili restano sterili e beffardi; quindi partendo dai “diritti” l’accento si sposta per forza di cose sulle lotte sociali, se dei diritti devono beneficiare “tutti” (non è soltanto una faccenda “estensiva”, ma anche “intensiva”: sono diritti più pieni, sostanziali e non più formali). Ecco perché Piero Gobetti, giovane martire antifascista, aveva coniato l’espressione “rivoluzione liberale”, scandalizzando Croce e suscitando l’ironia di molti marxisti, ma non di Gramsci che lo invitò subito a collaborare al suo “Ordine Nuovo”. Al di là delle parole, e del gergo usato (che non mi interessa), bisogna andare al sodo e capire cosa si VUOLE: affermare i diritti politici come panacea di tutti i mali, affossando quelli sociali, oppure inverare i diritti grazie all’uguaglianza (o meglio equità) socioeconomica. Io sono per la seconda opzione; e chi è per la prima non gode certo delle mie simpatie…
Giancarlo
Caro Giancarlo,
Mi fa piacere che alla fine ci siamo spiegati e trovati. Non condivido molto l’accostamento tra Gramsci, Luxemburg e Sartre, quando già tra Gramsci e Luxembuirg ci sono differenze di non poco conto. Non ho capito, sinceramente, cosa intendi per “sfera etica e volontaristica”. Ad ogni modo l’esempio dei rivoluzionari storici è proprio quello di essere passati per tante ed anche veementi discussioni, per poi, in taluni casi, finire col chiamare adidrittura “compagni” i propri interlocutori. Condivido in particolare quanto dici alla fine della tua risposta: bisogna capire ciò che si vuole. Bigona capire, aggiungo, ciò che si vuol fare da grandi: se essere rivoluzionari, o riformisti o altro. Perchè, per riprendere Luxemburg, il riformismo, per quanto sociale, non sarà mai socialista; e l’unica alternativa è quella della rivoluzione. Ma per fare questo, bisognerebbe incominciare e riprendere seriamente in mano i temi dell’economia pianificata e dell’obbligo di lavoro; e, pure, quello della Milizia universale, che Marx ed Engels non disdegnavano affatto. Bisogna capire ciò che si vuole: o il socialismo o la barbarie del capitalismo. Saluti!