di GIANCARLO IACCHINI ♦
«I have a dream!». È una delle frasi simbolo nel Novecento. Ed uno slogan ormai immortale della liberazione umana da ogni forma di oppressione. L’uomo che il 28 agosto del 1963 pronunciò questa frase, Martin Luther King, pagò con la vita il suo (e nostro) “sogno”, assassinato il 4 aprile del ’68 dai prezzolati sicari del privilegio e dell’ingiustizia, del razzismo e dell’intolleranza.
Se in Italia l’unione di libertà ed eguaglianza è potuta sembrare perfino un paradosso, un impossibile “ircocervo” come lo definì Benedetto Croce, quello stesso binomio era invece la cosa più ovvia e naturale per chi, nell’America degli anni Sessanta, sognava la libertà dei neri proprio per affermare quella giustizia ed eguaglianza «stabilite da Dio come verità evidenti». Un assioma storico, filosofico e religioso che animava la fede profonda del giovane e carismatico pastore battista della Southern Christian Leadership Conference: «All men are created equal». «Freedom is justice, and justice is equality». Ed attenzione: liberazione integrale della persona; eguaglianza politica ed anche sociale; democrazia sostanziale, non solo il voto ai “colored” e la fine dell’apartheid nell’ipocrita “Land of Freedom” statunitense.
Come scrive Matteo Colombi, «Martin Luther King non ha mai considerato l’uguaglianza formale dinanzi alla legge come l’obiettivo ultimo, ma solo come il primo passo di una lunga marcia; la marcia contro la povertà»; ed ancora: «Quando è stato assassinato a Memphis, King attaccava la guerra in Vietnam, gestita dal partito democratico di Kennedy e Johnson, e ne identificava le logiche imperialiste e di classe; è morto da leader che chiedeva la redistribuzione della ricchezza, da organizzatore di una marcia contro la povertà e da sostenitore delle lotte dei lavoratori. È morto da leader non solo dei diritti civili, ma di un proto-socialismo che scorre nelle vene profonde dell’America».
Perseguitato, arrestato, bastonato e spiato dal potere perché colpevole «di volere più uguaglianza», oggi non può diventare «un santino per mettere a posto le coscienze», soffocando la sua grandezza nel recinto circoscritto delle «libertà minime», comodamente compatibili con l’ordine capitalistico. Nel farne la profetica icona di un “sogno” ormai diventato reale, e nel ripetere come un mediatico mantra il suo celeberrimo “I have a dream”, la società contemporanea «continua ad evitare di guardare quest’uomo negli occhi; continua a negare ascolto al suo sogno per intero, il sogno di una società di persone uguali in dignità e dunque libere». Egualmente libere. E libere fino in fondo.
Quel giorno d’agosto, il giorno del Sogno, Martin Luther King diceva “nero” e non “neri”, per sottolineare l’aspetto individuale della liberazione collettiva. E usava il termine “negro” (proprio quello coniato spregiativamente dai bianchi e che oggi farebbe scattare d’indignazione qualunque “black”), quasi a fotografare la distanza tra il suo “sogno” e la realtà di quell’America che stava tradendo i suoi stessi princìpi. Sì, perché nella Dichiarazione d’Indipendenza erano sanciti fin dal 1776 quei diritti universali che Muccino e Will Smith ci hanno ricordato nel famoso film: «The unalienable rights – ricorda King – of life, liberty, and the pursuit of happiness»; vita, libertà e ricerca della felicità: e la libertà per tutti e per ciascuno, come il reverendo aveva perfettamente compreso, contiene in sé anche la giustizia e l’eguaglianza. Ecco perché nel suo discorso più famoso egli volle ricordare che il suo Sogno era «profondamente radicato nel sogno americano», quello di offrire a tutti una chance, la “massima” chance di redenzione e realizzazione personale.
La “Marcia per il lavoro e la libertà” era stata organizzata a Washington dal leader sindacale Philip Randolph, per appoggiare la proposta di legge sui diritti civili voluta dal presidente John Kennedy e bloccata al Congresso dalla dura resistenza dei conservatori. Molti movimenti politici e religiosi avevano appoggiato con entusiasmo l’iniziativa, alla quale aderirono famosi attori come Marlon Brando e Sidney Poitier e popolari cantanti come Joan Baez. Ma lo spettacolo, in quella limpida giornata di fine agosto, era rappresentato soprattutto dalla folla sterminata che partecipò alla marcia e poi ai comizi davanti al Lincoln Memorial: oltre 250.000 persone, un quinto delle quali di pelle bianca. La faccenda del “sogno” fu in realtà un fortunato fuori-programma, perché la parola d’ordine era “niente retorica”, ogni oratore aveva 15 minuti a disposizione e King aveva esaurito il suo tempo senza minimamente parlare di sogni, quando, mentre stava già allontanandosi dal microfono, la cantante gospel Mahalia Jackson prese a gridare: «Martin, raccontagli del tuo sogno! Digli del sogno!» («Tell them about your dream, Martin! Tell’em ’bout that dream!». Incoraggiato dall’ovazione della folla, il reverendo riprese allora la parola, e il risultato finale fu un “doppio” discorso a braccio che resta un emblema della lotta non-violenta per la libertà e la giustizia. Eccone una sintesi significativa:
«Cent’anni fa un grande presidente americano firmò il Proclama sull’Emancipazione, un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia, un’alba radiosa venuta a porre fine alla lunga notte della cattività. Ma cento anni dopo, il negro non è ancora libero; la sua vita è ancora paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cent’anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà in un vasto oceano di prosperità materiale; cent’anni dopo, il negro langue ancora ai margini della società e si trova esiliato nella sua stessa terra. Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti nella capitale per incassare un assegno: quel “pagherò” rappresentato dalle sublimi parole della Dichiarazione d’Indipendenza e consegnato allora ad ogni americano, bianco o nero che fosse. È evidente che l’America è venuta meno a questo impegno per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, ha consegnato ai negri un assegno falso, non coperto. Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia fallita, che non ci siano più fondi nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese, e quindi siamo venuti a incassare il nostro assegno, ricevendone in cambio la ricchezza della libertà e della giustizia».
Ma l’incasso, per King, deve avvenire per intero, tutto in una volta, e non a rate! «Questo non è il momento di inghiottire il tranquillante del gradualismo. È il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili del razzismo e di conquistare subito la democrazia, la giustizia e la fratellanza; il grande traguardo della libertà e dell’eguaglianza. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un brusco risveglio. Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ad essi non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia».
Parole forti, ma… «Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente: in questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo sempre condurre la lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima». E King a questo punto tende la mano ai bianchi che solidarizzano con la lotta dei neri: «Questa meravigliosa nuova militanza non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato al nostro destino, e che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Non possiamo camminare da soli». E nemmeno fermarsi a metà strada: «No, non saremo soddisfatti finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente». La sofferenza secolare patita dal “black people” è «redentrice». La speranza sta prendendo corpo. «La nostra situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione».
Ed ecco perché si deve… sognare: «Amici miei, io ho un sogno. Ed è un sogno profondamente radicato nel sogno americano. Il sogno che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il significato delle sue convinzioni: la verità evidente che tutti gli uomini sono creati uguali. Ho un sogno: che un giorno i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Ho un sogno: che libertà e giustizia trionfino anche nel più oppressivo degli stati. Ho un sogno: che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi. Il sogno che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina ed ogni montagna saranno umiliate, le vie tortuose verranno raddrizzate… È questa la nostra speranza. Ed è con questa fede che torno nel mio Sud. Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di conquistare e difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi».
A conclusione dell’appassionato discorso, un appello affinché in tutti gli stati americani «risuoni la libertà» («Let freedom ring…!»): «E quando lasciamo risuonare la libertà, da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici sapranno unire le loro mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente!”».
Martin Luther King, nato ad Atlanta il 15 gennaio del 1929, aveva cominciato nel ’47 in Alabama, appena ordinato pastore, la sua sfida contro la segregazione razziale. Nel ’55 guida l’azione di boicottaggio dei mezzi pubblici per protestare contro l’arresto di Rosa Parks, la donna di colore che si era rifiutata di cedere a un bianco il suo posto in autobus. Viene arrestato più volte, minacciato e picchiato dal Ku Klux Klan. Si batte in particolare per il diritto dei neri al voto e all’istruzione. Laureatosi in filosofia, si reca in India per studiare meglio il principio gandhiano della lotta non violenta. Nel 1964, mentre negli Usa viene finalmente approvato il Civil Bill Rights (che mette fine alla segregazione nei servizi pubblici e nelle scuole), King ottiene a Oslo il Premio Nobel per la Pace. Il 4 aprile del 1968 viene assassinato a Memphis. Nel 1986 è istituita la giornata della memoria in suo onore, celebrata per la prima volta il 18 gennaio 1993 in tutti gli Stati Uniti.
Ecco alcuni passi tratti dai suoi scritti e discorsi: «Ai nostri più accaniti oppositori diciamo: noi faremo fronte alla vostra capacità di infliggerci sofferenze con la nostra capacità di sopportarle; andremo incontro alla vostra forza fisica con la nostra forza d’animo. Metteteci in prigione e noi vi ameremo ancora. Lanciateci bombe e vi ameremo ancora. Mandate i vostri sicari incappucciati nelle nostre case, bastonateci e lasciateci mezzi morti e noi vi ameremo ancora. Fateci quello che volete e continueremo ad amarvi. Ma non possiamo, in buona coscienza, obbedire alle vostre leggi ingiuste, perché la non cooperazione col male è un obbligo morale non meno della cooperazione col bene. E siate sicuri che noi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno conquisteremo la libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello al vostro cuore ed alla vostra coscienza che alla lunga vi conquisteremo, e la nostra vittoria sarà duplice. L’amore è il potere più duraturo che esista al mondo». «La lotta c’è sempre. Ci dichiariamo contro la guerra, protestiamo, ma è come se con la testa volessimo abbattere un muro di cemento: sembra che non serva a nessuno. E molto spesso, mentre si cerca di costruire il tempio della pace, si rimane soli; si resta scoraggiati; si resta smarriti. Ebbene, così è la vita. Forse non sarà per oggi, forse non sarà per domani, ma è bene che sia nel tuo cuore. È bene che tu ci provi. Magari non riuscirai a vederlo. Il sogno può anche non realizzarsi, ma è comunque un bene che tu abbia un desiderio da realizzare. È bene che sia nel tuo cuore».
«C’è più forza nella massa organizzata di quanta ce ne sia nelle armi in mano ad una manciata di uomini disperati. I nostri nemici preferirebbero lottare contro un piccolo gruppo armato piuttosto che contro una grande, disarmata ma risoluta massa di persone. Comunque è necessario che il metodo dell’azione di massa sia tenace e non rinunciatario. Gandhi diceva, riferendosi agli inglesi, che gli indiani non avrebbero dovuto “mai dar loro un attimo di respiro”. Li esortava a continuare la protesta ogni giorno, in modi diversi. Questo metodo ispirò ed organizzò le masse indiane e disorganizzò e fece smobilitare gli inglesi. Tutta la storia ci insegna che un risoluto movimento di uomini che lottino senza tregua per i loro diritti disintegra sempre il vecchio ordine, come un oceano in subbuglio sbriciola una grande scogliera. È questa forma di lotta, cioè un’azione di massa che non accetti di cooperare con il male (“mai dar loro un attimo di respiro!”) ad aprire la strada al successo a coloro che sono stati tentati e stimolati dalla violenza. Bisogna essere decisi e coraggiosi, perché questa forma di lotta non è esente da rischi; però si dimostra più definitiva e rovinosa per il nemico che non la violenza organizzata. La nostra necessità è quella di porre fine alle lotte interne e di rivolgerci contro il nemico esterno, utilizzando ogni forma di azione di massa e scegliendo di “non dargli mai un attimo di respiro”. È questa la leva sociale che costringerà ad aprirsi la porta della libertà».
«Dobbiamo procedere dall’indecisione all’azione, trovare nuovi modi per parlare a favore della pace e a favore di una giustizia da realizzare in tutto il mondo: un mondo che confina con la nostra porta di casa». «Quando gli uomini hanno paura non fanno niente, rimangono soli, indifesi, spaesati, lasciandosi travolgere dagli eventi. Ma quando si arrabbiano, allora sì che si danno da fare per cambiare le cose». «Abbiamo conquistato il cielo come uccelli e il mare come pesci, ma dobbiamo imparare di nuovo il semplice gesto di camminare sulla terra come fratelli». «Con la violenza puoi uccidere colui che odia, ma non uccidi l’odio. La violenza aumenta l’odio e nient’altro». «È la nonviolenza la risposta ai cruciali problemi politici e morali del nostro tempo; la necessità per l’uomo di avere la meglio sull’oppressione e la violenza senza ricorrere all’oppressione e alla violenza. L’uomo deve elaborare per ogni conflitto un metodo che rifiuti la vendetta, l’aggressione, la rappresaglia. Il fondamento di un tale metodo è l’amore. Sono fermamente convinto che la verità disarmata e l’amore disinteressato avranno l’ultima parola».