Rosa Luxemburg

Rosa Luxemburg

di GIANCARLO IACCHINI ♦

La donna che amava definirsi, con grande smacco dei maschi del partito, «l’unico vero uomo della SPD». L’irriducibile rivoluzionaria contro il riformismo e il revisionismo di Eduard Bernstein. L’attivista instancabile della socialdemocrazia tedesca a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo. La pacifista che passò in carcere gli anni della prima guerra mondiale (quel gigantesco massacro figlio dell’imperialismo che lei aveva lucidamente previsto e denunciato nel bel mezzo dell’irreale “belle époque”). L’ecologista ante-litteram. La marxista creativa. La prima comunista che criticò Lenin e l’incipiente dittatura “sul” proletariato. La prima “no global”, teorica (e nemica) dell’inevitabile globalizzazione capitalistica, che avrebbe messo in atto su scala planetaria la vecchia “teoria del crollo” di Marx: gli esperti dicono che si sbagliò nei calcoli, tentando di aggiornare gli schemi matematici dell’accumulazione del capitale, ma intanto confutò la miope analisi di Bernstein (che parlava di “crescente benessere dei proletari” poiché guardava solo ai paesi imperialisti e dimenticava la miseria abissale e il feroce sfruttamento del terzo mondo) sbattendogli in faccia quella “dialettica” che i pantofolai della Seconda Internazionale avevano ormai messo in soffitta, insieme all’idea e alla pratica della rivoluzione. La piccola ma indomabile polacca fondatrice della Lega di Spartaco e del partito comunista tedesco. La sfortunata protagonista di un’insurrezione (quella del 1919) che non aveva voluto, che considerava velleitaria e suicida, ma che non se l’era sentita di “tradire”. La martire del socialismo radicale e del comunismo libertario, barbaramente trucidata dalla soldataglia prenazista sotto un governo “socialdemocratico”: Rosa Luxemburg (1871-1919).

La “Rosa rossa”, come la definì Bertold Brecht. Che scrisse questo epitaffio funebre dopo la sua scomparsa (era stata uccisa a freddo, con un colpo di pistola alla testa, da un ufficiale dell’esercito, durante quello che lei credeva l’ennesimo trasferimento in carcere, e gettata crudelmente in un gelido canale di Berlino): «Ora è sparita anche la Rosa rossa / Non si sa dov’è sepolta / Siccome ai poveri ha detto la verità / i ricchi l’hanno spedita nell’aldilà». Era una donna energica e determinata, ma molto fragile fisicamente, claudicante per una grave malattia contratta durante l’infanzia. Aveva un animo straordinariamente nobile e sensibile. Amava profondamente gli esseri umani (da piccola insegnava a leggere e scrivere ai poveri e agli analfabeti che frequentavano la casa dei genitori); in carcere faceva collezione di foglie e di fiori; e nutriva un rispetto e un amore viscerali per la natura e per gli animali. Commovente questa lettera dal carcere, indirizzata all’amica Sonja Liebknecht:

«Oh, Sonjuščka, oggi ho provato un forte dolore. Nel cortile dove passeggio arrivano spesso dei carri dell’esercito stracarichi di sacchi o vecchie casacche e camicie militari, spesso con macchie di sangue. Recentemente è arrivato uno di questi carri, tirato da bufali invece che da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Sono di costituzione più robusta e massiccia dei nostri buoi, con teste piatte e corna ricurve basse, il cranio è simile a quello delle nostre pecore, sono completamente neri, con grandi, dolci occhi neri. Provengono dalla Romania. I soldati raccontarono che fu molto faticoso catturare questi animali selvaggi e ancor più difficile, essendo abituati alla libertà, usarli come animali da tiro. Furono orribilmente percossi finché non capirono che avevano perso la guerra. Abituati ai rigogliosi pascoli rumeni, ricevono un misero foraggio. Vengono sfruttati senza pietà per trainare tutti i carri possibili e così muoiono presto. Insomma, alcuni giorni fa arrivò qui un carro carico di sacchi. Il carico era così alto che i bufali non riuscivano a superare la soglia del portone. Il soldato, un tipo brutale, cominciò a picchiare così forte gli animali, con la grossa estremità del manico della frusta, che la sorvegliante, indignata, lo riprese chiedendogli se non aveva proprio alcuna compassione per quegli animali. Lui sogghignò, e picchiò ancora più forte. Alla fine gli animali tirarono e scamparono il peggio, ma uno di essi sanguinava… Sonjuščka, la pelle dei bufali è proverbiale per lo spessore e la durezza, eppure la loro era lacerata. Poi, mentre scaricava, gli animali stavano muti, sfiniti, e uno, quello che sanguinava, guardava lontano con sulla faccia e nei dolci occhi neri un’espressione come quella di un bambino rosso per il pianto. Era esattamente l’espressione di un bambino che è stato duramente punito e non sa perché, non sa come deve affrontare il supplizio e la brutale violenza… Io stavo là e l’animale mi guardò, mi scesero le lacrime: erano le sue lacrime. Non si può fremere dal dolore per il fratello più caro come io fremevo nella mia impotenza per questa muta sofferenza. Come erano lontani, irraggiungibili, perduti i bei pascoli liberi e rigogliosi della Romania! Com’era diverso lì lo splendore del sole, il soffio del vento, com’erano diverse le belle voci degli uccelli che lì si udivano, o il melodico muggito dei buoi! E qui: questa città straniera, orribile, la stalla umida, il fieno ammuffito, nauseante, misto di paglia fradicia, gli uomini estranei, terribili e le percosse, il sangue che colava dalla ferita fresca….Oh, mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, noi due stiamo qui impotenti e muti e siamo uniti solo nel dolore, nell’impotenza, nella nostalgia… Intanto i detenuti si muovevano affaccendati attorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano nella casa; il soldato, invece, con le due mani nelle tasche passeggiava a grandi passi per il cortile, rideva e fischiettava una canzonetta. E così mi passò dinanzi tutta la magnifica guerra».

Da un’altra lettera “ecologista” di Rosa: «Proprio ieri ho letto qualcosa sulle cause della diminuzione degli uccelli canori in Germania: sono la crescente coltura razionale delle foreste e dei giardini e l’agricoltura che man mano distruggono tutte le loro condizioni naturali di nidificazione e alimentazione: alberi cavi, terreni incolti, sterpaglia, foglie secche sul terreno dei giardini. Mi ha fatto tanto male, quando l’ho letto. Non è tanto il canto per gli uomini che mi interessa, ma è l’immagine del silenzioso, inarrestabile declino di queste piccole creature che mi addolora fino alle lacrime. Mi richiama alla mente un libro sul declino dei pellerossa nell’America del nord, che lessi quando ero a Zurigo: anch’essi furono man mano scacciati dal loro territorio dagli uomini civili e condannati ad un silenzioso, crudele declino». Si noti quell’inciso così significativo: «Non è tanto il canto per gli uomini che mi interessa»: come a dire, la natura non sta lì per noi essere umani, ma per se stessa; e per se stessa va difesa, apprezzata, amata. Dev’esserci dunque un limite all’umanismo degli illuministi e dei socialisti, e questo limite è dato dalla natura, con le sue regole auree che l’uomo è chiamato a rispettare scrupolosamente.

Ed ecco un altro bel passo della Rosa… verde: «La primavera scorsa rincasavo da una passeggiata nei campi per la mia strada silenziosa e deserta quando mi colpì a terra una piccola macchia scura. Mi piegai e vidi una muta tragedia: un grosso scarafaggio giaceva sul dorso e si difendeva disperatamente con le zampette mentre tutto un mucchio di piccole formiche gli brulicavano attorno e se lo mangiavano ancora vivo! Rabbrividii, presi il fazzoletto e cominciai a scacciare le brutali bestioline. Ma esse erano così temerarie e testarde che dovetti lottare a lungo, e quando alla fine ebbi liberato il povero martire e lo ebbi deposto sull’erba, gli erano già state divorate due zampette. Andai via con la penosa sensazione di avergli in fondo prestato un servizio molto discutibile».

Un servizio invece tutt’altro che discutibile è quello prestato da Rosa Luxemburg alla causa della sinistra libertaria: «La libertà è sempre libertà di dissentire»; ed anche: «La libertà è sempre e soltanto la libertà di chi la pensa diversamente». Sbattuta in faccia, questa constatazione che si sbaglierebbe a considerare elementare e lapalissiana, a quei compagni che come Lenin (e qualche volta anche come Marx) sublimavano l’idea della “dittatura” in un nuovo e superiore concetto di libertà, magari “più vera”. Però la libertà, per quanto dialettizzata e rielaborata in senso rivoluzionario, non può che mantenere quell’irrinunciabile nucleo sostanziale, pena la sua trasformazione in beffa e menzogna. La rivoluzione socialista, per Rosa, non doveva “abbattere” la democrazia, ma “estenderla” in profondità (socialmente) e in estensione (universalmente). Non esiste una sola “verità”. Il materialismo storico e dialettico, aderendo ai mutamenti della realtà economica, sociale, politica e culturale, rappresenta l’esatto contrario di qualsiasi dogma: «Il marxismo è un punto di vista rivoluzionario che deve sempre lottare per nuove verità». Una comunista libertaria assassinata dai “socialdemocratici” e seppellita dagli stalinisti: si spiega così la «colossale rimozione» del suo pensiero, per usare un’espressione di Rina Gagliardi, ad opera di tanta parte della sinistra europea, e per troppi anni. Anche per quella critica alla forma-partito che per gli uni e per gli altri costituiva un intoccabile tabù: «Non esistono apparati di partito buoni o cattivi; sono tutti conservatori per natura»; meglio allora il “movimento”, per mantenersi liberi e progressisti: «Chi non si “muove” non può rendersi conto delle proprie catene!».

Ma vediamola per intero questa critica libertaria (e straordinariamente profetica) alla politica dei capi bolscevichi: «Col soffocamento della vita politica in tutto il paese, anche la vita dei soviet non potrà sfuggire a una paralisi sempre più estesa. Senza elezioni generali, libertà di stampa e di riunione illimitata, libera lotta d’opinione in ogni pubblica istituzione, la vita si spegne, diventa apparente e in essa l’unico elemento attivo rimane la burocrazia. La vita pubblica si addormenta poco per volta, alcune dozzine di capi di partito di inesauribile energia e animati da un idealismo sconfinato dirigono e governano; tra questi la guida effettiva è poi in mano a una decina di teste superiori; e una élite di operai viene di tempo in tempo convocata per battere le mani ai discorsi dei capi e votare unanimemente risoluzioni prefabbricate: in fondo dunque un predominio di cricche; una dittatura, certo, ma non la dittatura del proletariato bensì la dittatura di un pugno di politici, vale a dire dittatura nel senso borghese, nel senso del dominio giacobino. In tale situazione è fatale che maturi un imbarbarimento della vita pubblica: attentati, fucilazioni, ecc. È una legge obiettiva, onnipotente, alla quale nessuno può sottrarsi. L’errore fondamentale della teoria di Lenin-Trotzky è appunto quello di contrapporre, esattamente come Kautsky, dittatura e democrazia. “Dittatura o democrazia” suona l’impostazione del problema tanto presso i bolscevichi quanto in Kautsky. Quest’ultimo naturalmente opta per la democrazia e precisamente per la democrazia borghese, dato che egli la pone appunto in funzione alternativa alla sovversione socialista. Lenin e Trotzky optano al contrario per la dittatura in contrapposizione alla democrazia e di conseguenza per la dittatura di un pugno di persone, vale a dire per la dittatura di modello borghese. Si tratta di due poli contrapposti, entrambi assai lontani dall’autentica politica socialista. Chi ancora si aspetta da Lenin e dai suoi compagni che in circostanze del genere facciano nascere la più bella delle democrazie pretenderebbe un’opera sovrumana. Con la loro determinazione rivoluzionaria, i bolscevichi hanno agito inizialmente nel miglior modo possibile data la difficilissima situazione della Russia. Il pericolo sorge però quando essi vogliono fare di necessità virtù, cristallizzando nella teoria una tattica che è stata loro imposta da condizioni fatali, e raccomandando al proletariato internazionale di imitarla come un modello di politica socialista. La libertà solo per i seguaci del governo, solo per i membri di un partito – per numerosi che possano essere – non è libertà. La libertà è sempre unicamente libertà di chi la pensa diversamente. Non per fanatismo di “giustizia”, bensì perché tutto ciò che di educatore, di salutare e di purificatore deriva dalla libertà politica dipende da questa condizione, e perde ogni efficacia quando la “libertà” si fa privilegio». Il potere proletario «consiste in un modo di applicare la democrazia, non nella sua eliminazione», «dev’essere opera della classe, e non di una piccola minoranza che agisce in nome della classe; cioè, essa deve procedere passo dopo passo per mezzo dell’attiva partecipazione delle masse; dev’essere sotto la loro diretta influenza, completamente soggetta al controllo dell’attività pubblica; deve scaturire dalla crescente consapevolezza politica della massa del popolo».

Lenin e Trotzky, nonostante le dure critiche che Rosa rivolgeva loro, continuarono a stimarla e rispettarla. Il primo la definì «un’aquila» per lungimiranza e acume intellettuale, aggiungendo che «i suoi scritti serviranno da utili manuali nella formazione delle future generazioni di comunisti di tutto il mondo»; ed al secondo si deve forse il ritratto più tenero e affettuoso (ed anche onesto nell’autocritica finale) di questa eroica combattente per la libertà, l’eguaglianza e la pace: «Rosa era una donna piccola, fragile e pure malaticcia, ma con un volto nobile e occhi bellissimi che irradiavano intelligenza; affascinava l’assoluto coraggio della sua mente e del suo carattere. Il suo stile, che era insieme preciso, intenso e spietato, sarà sempre lo specchio del suo spirito eroico. La sua era una natura complessa e multiforme, ricca di sfumature sottili. La rivoluzione e le sue passioni, uomini ed arte, natura, uccelli e floricoltura, tutte queste cose avrebbero potuto suonare le innumerevoli corde della sua anima. “Vorrei avere qualcuno – scrisse un giorno a Luise Kautsky – che mi credesse quando dico che è solo per una serie di incomprensioni che io mi ritrovo nel bel mezzo di questo vortice della storia umana, laddove in realtà io sono nata per guardare oltre le oche, nei campi”. I miei rapporti con lei non erano segnati da amicizia personale; i nostri incontri erano troppo brevi e infrequenti. Io l’ho sempre ammirata da lontano. E probabilmente non l’ho mai apprezzata abbastanza».

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