Antonio Gramsci

Antonio Gramsci

di GIANCARLO IACCHINI

C’è chi vede nel concetto di “egemonia”, in quello di “intellettuale organico” o del partito come “moderno Principe” altrettanti limiti al carattere libertario del pensiero di Antonio Gramsci (1891-1937). Ma le radici della libertà, nell’opera del grande marxista italiano fondatore del Pci e prigioniero simbolo (nonché vittima eccellente) del regime fascista, sono a nostro parere molto più profonde, affondando non solo nel radicale antifascismo che ha connotato la sua vicenda umana e politica ma anche nel fertile terreno del suo irriducibile “umanismo”, autentico ed integrale; nella coraggiosa rivalutazione della volontà, della coscienza, della praxis con cui l’essere umano “in carne ed ossa”, fatto di corpo e di spirito, di materia e di “cultura” e attività, rovescia ad ogni passo della sua vita (e della sua lotta per la vita) la materialistica alienazione delle forze “meccaniche”, delle ferree leggi della natura e della storia che lo condizionano sì ma non lo soverchiano né lo schiacciano, come crede la piatta scolastica di un marxismo deformato e involgarito, il quale dimentica l’avvertimento “dialettico” lanciato da Marx nelle Tesi su Feuerbach: «Anche l’educatore (l’ambiente) dev’essere educato!».

Intuendo con grande perspicacia la lezione marxiana contenuta in quei Manoscritti economico-filosofici che purtroppo non conosceva, Gramsci nei suoi Quaderni del carcere rivaluta prepotentemente, anche sulla scia della lezione idealistica italiana, l’azione autonoma dell’uomo, che non è riducibile ad una rotella dell’ingranaggio della fatale lotta millenaria delle classi, ma la cui coscienza e la cui prassi risultano decisive in tutte le fasi storiche, tanto più quando si tratta – con la prospettiva socialista contro la società borghese – di liberare l’essenza umana dal mondo reificato e mercificato; dall’alienazione del denaro e del valore di scambio; dal dominio del profitto; dalla spersonalizzazione dei freddi rapporti monetari basati sull’egoismo, sull’utilitarismo, sulla convenienza, sull’interesse.

«Si può dire che non solo la filosofia della praxis non esclude la storia etico-politica, ma che anzi la fase più recente del suo sviluppo consiste appunto nella rivendicazione del momento dell’egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella valorizzazione del fatto culturale, dell’attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici». Il compito dell’intellettuale collettivo sarà allora quello di sollevare l’umanità dall’abiezione della miseria economica e spirituale; di elevare l’uomo e riscattarlo dalla schiavitù materiale, di raddrizzare il mondo rovesciato e distorto del “crasso” materialismo capitalistico, di conquistare il “regno della libertà” superando quello “della necessità”, di valorizzare la coscienza e la cultura contrastando il “marxismo volgare” e arricchendo con iniezioni di “sovrastruttura” – altrettanto vitale e reale della stessa base economica – l’impianto originario del cosiddetto materialismo storico, da ribattezzare più precisamente (e significativamente) “filosofia della prassi”: filosofia cioè della volontà e dell’azione.

Perché si può essere “pessimisti” con la ragione, ma bisogna sempre conservare “l’ottimismo della volontà”, perché le donne e gli uomini non cessano mai di lottare per difendere e affermare la propria dignità di esseri liberi e (hegelianamente) padroni del mondo, nel rispetto degli altri uomini e della natura che li produce e li mantiene; “divinità” in terra, superando la coscienza infelice della propria subalternità agli dei di qualsiasi olimpo ed alle forze cieche della natura.

La dignità del Gramsci prigioniero delle carceri mussoliniane, la sua piena e incoercibile libertà interiore che leniva il peso della costrizione esteriore, il suo orgoglioso rifiuto a sottoscrivere la domanda di grazia che mezzo mondo invocava per lui, quel non piegare la schiena da parte di un uomo già fin troppo piegato fisicamente dalla malattia, ma integro nella mente e nel cuore; e la sua straordinaria serenità: «Il mio stato d’animo è tale che se anche fossi condannato a morte, continuerei a essere tranquillo e la sera prima dell’esecuzione magari studierei una lezione di lingua cinese per non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismoIl mio stato d’animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista con la volontà».

È la profonda umanità che si esprime nelle “Lettere dal carcere”, testimoniata dalle favole (sempre molto istruttive) inventate per i figli e da questa esortazione rivolta al piccolo Delio: «Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa».

Gli stessi errori politici e ideologici da lui certamente commessi stanno ad indicare il suo afflato umanistico e libertario: quel salutare con entusiasmo la rivoluzione d’Ottobre, nell’illusoria certezza che bastasse questo a spezzare non solo le secolari catene dell’oppressione subita dal popolo russo, ma anche quelle della “necessità storica”, che imponeva alle forze attive del cambiamento sociale un modello preconfezionato basato sull’evoluzione graduale e sul riformismo inconcludente. E non è un caso che anche il liberale Gobetti, in quegli stessi anni, guardasse con favore al “volontarismo” bolscevico, sempre in nome della libertà ontologica dell’uomo, capace di spezzare ed infrangere ogni passivo evoluzionismo sociale. È una “rivoluzione contro il Capitale”!, scrisse sull’Avanti alla vigilia del Natale 1917: neppure il Marx positivista e “scienziato” sfuggiva agli strali del Gramsci “attivista” e pragmatico: le fasi della storia possono essere liberamente “saltate”, e la stessa metafora marxiana delle “doglie del parto” che si possono “abbreviare” doveva stargli assai stretta.

Così come, con un simile atto di “libertà” politica, i comunisti avrebbero spezzato a Livorno la gabbia “immobilistica” del Psi, mettendosi liberamente alla testa della rivoluzione italiana dei consigli e dell’occupazione delle fabbriche. Fuori tempo massimo, però, perché la reazione borghese e fascista era già tragicamente cominciata. Eppure Gramsci, per quanto capace di sognare e di pensare in grande, non mancava di una buona dose di prudente realismo: «Occorre violentemente attirare l’attenzione sul presente così com’è, se si vuole trasformarlo». Non lo fece, o comunque non abbastanza, in quel drammatico dopoguerra italiano, in cui dal “biennio rosso” si passò in fretta a quello nero.

La riflessione sugli sbagli e gli abbagli degli intellettuali progressisti italiani, dal Risorgimento al nuovo medioevo fascista, sarà amara e assai cruda nei duri anni del carcere. Ma può sbagliare solo chi tenta, chi agisce, chi “vive”: come lo “slancio vitale” di Bergson in idealistica lotta con la materia, l’idealismo “pratico” di Gramsci si scaglia contro il muro dell’inerzia e della passività: «L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per l’innovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica».

Ecco perché «l’innovazione non può diventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una élite», ma il Partito, questo “filosofo collettivo”, questo machiavellico Principe che «prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico», che «diventa la base di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume», non può e non dovrà mai dimenticare che «tutti gli uomini sono filosofi», «in quanto operano praticamente, e nel loro pratico operare è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale; non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione, esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare».

E la lotta per convincere, persuadere, ottenere il consenso del popolo, far scaturire “nuovi modi di pensare” in luogo dei vecchi, è precisamente la forma in cui si esprime la conquista dell’egemonia da parte di chi si è già liberato, nella propria coscienza, dai dettami dell’ideologia dominante. Senza l’egemonia culturale e morale, il potere diventa puro dominio, e neppure la forza potrebbe garantirne il futuro: «Un gruppo sociale può e anzi deve essere “dirigente” già prima di conquistare il potere governativo, e questa è una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, il gruppo sociale divenuto dominante deve continuare ad essere anche dirigente».

Oggi il “blocco storico” rivoluzionario chiamato a sostituire quello conservatore non sarà più rappresentato “dagli operai e dai contadini”, contrapposti all’alleanza tra capitalisti del nord e latifondisti del meridione, ma da chiunque abbia aperto gli occhi di fronte all’inganno del pensiero unico imposto dai moderni padroni dei mezzi di produzione del XXI secolo, che sono gli strumenti mediatici in grado di ottundere e dominare le coscienze. Cosicché l’insistere di Gramsci (come anche del Lukacs di Storia e coscienza di classe) sulla questione della “coscienza” liberata e da liberare è quanto di più attuale e libertario si possa immaginare.

«Bisogna impedire a questo cervello di funzionare!»: il barbaro appello di Mussolini e del pubblico ministero del Tribunale Speciale aveva in un certo senso colto nel segno, ma essi non riuscirono nell’intento. Gramsci infatti, pur condotto alla morte da dieci lunghi anni di carcere duro, riuscì a consegnare alla cultura italiana il miracolo dei Quaderni e delle Lettere. E una lezione di coraggio e libertà che non sarà mai dimenticata, con buona pace dei suoi vili assassini.

C’è una testimonianza particolarmente commovente, a proposito del grande intellettuale sardo: quella di Sandro Pertini, che inviato anche lui al carcere di Turi si fermò davanti ad una cella spesso chiusa anche durante l’ora d’aria di cui beneficiavano gli altri detenuti; allora Pertini di inginocchiò e guardò dal buco della serratura, piuttosto grande dovendo entrarci il pesante chiavistello: e vide questo piccolo uomo ricurvo sul tavolaccio della cella, che scriveva e scriveva… Poi un giorno lo vide finalmente in un angolo del cortile: non senza imbarazzo trovò il coraggio di avvicinarsi a lui:

«Mi scusi, Lei è l’onorevole Gramsci, vero?». «Che fai, mi dai del Lei? – gli rispose Gramsci ridendo – Non sei un antifascista anche tu? Non sei anche tu vittima del Tribunale Speciale?». «Sì, mi chiamo Sandro Pertini, ma sono socialista…». «Perché dici “ma”?». «Perché per voi comunisti quelli come me sono dei “social-traditori”». Gramsci sorrise di nuovo, ma stavolta amaramente: «Lascia perdere quelle stupidaggini, per favore!». E cominciò a discutere di politica con il futuro (molto futuro) presidente della repubblica italiana, e gli scappò anche qualche giudizio un po’ caustico su Turati e Treves, compagni di partito di Pertini, il quale, orgoglioso com’era, si offese e interruppe bruscamente la conversazione. Ma il giorno dopo, sempre nell’ora d’aria, fu Gramsci ad avvicinare il socialista: «Sandro, devi scusarmi per le parole di ieri; il mio era un giudizio politico e non intendevo offendere due persone esiliate dal regime». Pertini apprezzò l’autocritica. E da allora cercò, per quanto poteva, di aiutare Gramsci nella vita carceraria: quando si accorse per esempio che le guardie facevano apposta a svegliarlo ogni volta che si addormentava, facendo scorrere un bastone di ferro sulle sbarre della sua cella, andò a protestare dal direttore del carcere, dicendo che avrebbe scritto al ministero pur di far cessare quella ingiustificata crudeltà, e da allora i rumori cessarono, e Gramsci poté dormire un po’ più tranquillo. Poi, visto che c’era, Pertini chiese al direttore un’altra cosa per l’amico: più carta e tutto l’inchiostro che serviva, per quei “quaderni” a cui teneva così tanto. Un regalo forse perfino più gradito del prezioso silenzio notturno.

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