Aldo Capitini

Aldo Capitini

di GIANCARLO IACCHINI

«Ho riconosciuto la necessità di affermare il limite della politica, non rinunciando ad essa, ma aggiungendo fondamentali posizioni di coscienza che impegnano più e prima dell’azione politica. Il mio scopo è di trovare e costituire un fondo saldo al socialismo, alla sinistra italiana; di sottrarla ad un certo politicismo, tatticismo, pseudo-realismo machiavellico diseducatore». Aldo Capitini (1899-1968): socialista radicale, “liberalsocialista” e “rivoluzionario” dichiarato, antifascista intransigente, “religioso laico” contrario al concordato, nemico giurato di ogni totalitarismo, critico severo della partitocrazia, “movimentista” ultrademocratico, teorico della “omnicrazia” – il “potere di tutti” – e dell’autogestione; e, soprattutto, l’apostolo italiano del pacifismo e della nonviolenza; l’inventore della marcia della pace, e della bandiera della pace, che entrambe debuttarono nel 1961 grazie alla sua passione politica e morale; fondatore del Movimento Nonviolento e di mille iniziative popolari di partecipazione “dal basso” e di democrazia diretta, sempre all’insegna dell’amore per “gli ultimi”, dell’eguaglianza, della fraternità, della libertà da ogni oppressione. Dal cuore dell’Umbria, cuore d’Italia e terra di San Francesco, la via “religiosa” e morale al socialismo.

«Quando nel 1960 feci a Perugia insieme con gli amici un bilancio delle iniziative prese e di quelle possibili, vidi che l’idea della marcia piacque. La marcia doveva essere popolare. Avevo visto, nei dopoguerra della mia vita, le domeniche nella campagna frotte di donne vestite a lutto per causa delle guerre, sapevo di tanti giovani ignoranti ed ignari mandati ad uccidere e a morire da un comando dall’alto, e volevo fare in modo che questo non avvenisse più. Come avrei potuto diffondere la notizia che la pace è in pericolo, come avrei potuto destare la consapevolezza della gente più periferica, se non ricorrendo all’aiuto di altri e impostando una manifestazione elementare come è una marcia? Sapevo bene che i partecipanti, in gran parte, non sarebbero stati persuasi da idee nonviolente; lo sapevo benissimo, ma mi si presentava l’occasione di mostrare che la nonviolenza è attiva e in avanti, è critica dei mali esistenti, tende a suscitare larghe solidarietà, è chiara e razionale nel disegnare le linee di ciò che si deve fare. Questi caratteri della Marcia mi sono stati chiarissimi fin dall’inizio: che l’iniziativa partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale, che la Marcia dovesse destare la consapevolezza della pace in pericolo nelle persone più periferiche e lontane dall’informazione e dalla politica; che la Marcia fosse l’occasione per la presentazione e il “lancio” dell’idea del metodo nonviolento al cospetto di persone ignare o riluttanti o avverse».

E dall’idea si passò alla sua realizzazione pratica: «Messici al lavoro cercando di avvertire e stimolare quante più persone si potesse, si vide che, quanto alla data della Marcia, si doveva rinunciare al proposito di farla presto, e così dopo aver fissato varie scadenze si arrivò a quel 24 settembre 1961, che il risultato ha dimostrato molto felice. Fino a giugno non si può dire che le adesioni e gli impegni di partecipazione fossero molti. Così da luglio, terminati i miei impegni di insegnamento, mi accinsi ad un lavoro intensissimo perché la notizia si diffondesse. Chi è stato alla Marcia e ha visto quale varietà di persone vi fosse, non pensa che io speravo in un numero maggiore… Anche questo indica che la Marcia Perugia-Assisi è stata il suscitamento di un pacifismo integrale e nonviolento molto maggiore e più dinamico di quello che c’era prima; ho visto donne che avevano le lacrime agli occhi per la commozione al passare della nostra Marcia, e contadini levarsi il cappello. Le accuse, prima della Marcia, erano state alquanto varie: ad esempio si disse che io ero “manovrato” dai comunisti». Già, la solita accusa! Ma Capitini tirò diritto per la sua strada, preoccupato non tanto di convincere gli anticomunisti, quanto invece di convincere proprio i comunisti, che non capivano (o almeno non capirono subito) la forza della “protesta nonviolenta” e della “rivolta morale” contro l’ingiustizia, dettata dall’amore: «Tanto dilagheranno violenza e materialismo, che ne verrà stanchezza e disgusto, salirà l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore, e di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo (che è il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento cioè che il mondo è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza un’apertura infinita dell’uno verso l’altro, senza una unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia».

Questi gli obiettivi del Movimento fondato da Capitini: esclusione della violenza individuale e di gruppo da ogni campo della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale; promozione del bene comune attraverso la partecipazione e la democrazia diretta; opposizione integrale alla guerra; opposizione allo sfruttamento economico, all’imperialismo, al colonialismo, al razzismo, alle discriminazioni di ogni tipo; salvaguardia della cultura popolare e dell’ambiente naturale. Metodi della lotta nonviolenta sono la disobbedienza civile, la non-collaborazione attiva, lo sciopero, la protesta, la persuasione, l’educazione, il boicottaggio. Simbolo del  Movimento Nonviolento (talvolta inserito all’interno della bandiera arcobaleno), due mani che spezzano un fucile.

«Il fascismo – scrisse Capitini – aveva unito in un insieme tutto ciò contro cui lottavo per profonda convinzione: il nazionalismo; l’imperialismo colonialista; il centralismo assolutistico e burocratico; il totalitarismo con la soppressione di ogni apporto di idee e correnti diverse; il prepotere poliziesco; quel gusto dannunziano e quell’esaltazione della violenza, del manganello, dello spaccare le teste, del pugnale, delle bombe a mano; quel finto rivoluzionarismo attivista e irrazionale sopra un sostanziale conservatorismo; difesa dei proprietari, di ciò che era vecchio; quell’alleanza con il conservatorismo della chiesa, delle parrocchie, delle gerarchie ecclesiastiche; quel corporativismo con una insostenibile parità fra capitale e lavoro; quel rilievo malsano di un solo tipo di cultura e di educazione; quell’ostentazione delle poche cose fatte, dilapidando immensi capitali, invece di affrontare il rinnovamento del Mezzogiorno; e l’onnipotenza di un uomo, di cui era facile vedere quotidianamente la grossolanità, la mutevolezza, l’egotismo, l’iniziativa brigantesca, la leggerezza nell’affrontare cose serie, gli errori e l’irragionevolezza».

«Oggi mi pare quasi impossibile che, nonostante il mio totale e radicale antifascismo, né i socialisti né Gramsci abbiano fatto presa su di me». Il che non gli risparmiò la stessa sorte che il regime riservava all’estrema sinistra “sovversiva”, a partire dal carcere duro. In cella, Capitini si avvicinò alla rete di prigionieri politici vicini a Giustizia e Libertà, destinati poi a fondare il Partito d’Azione. Ma lui non condivideva la scelta “partitica”: «I partiti quando vincono trasformano le idee, che prima erano di rottura e di novità, in istituzioni controllate e chiuse, con il pericolo della corruzione, del conformismo, della rinuncia all’apporto di idee nuove che sorgano dalla società». E poi era moralmente contrario alla lotta armata. «Continuai da allora a chiamarmi liberalsocialista o indipendente di sinistra».

Nel dopoguerra, la sua scelta doppiamente “alternativa” – rispetto al nuovo regime democristiano ma anche ai metodi classici dell’opposizione di sinistra – si concretizzò nella creazione dei COS (Centri di Orientamento Sociale), vere e proprie assemblee popolari, luoghi di dibattito liberi ed aperti attraverso i quali cercò di attuare la sua idea di democrazia dal basso e di “potere di tutti”, sul modello dei “comitati di liberazione” protagonisti della Resistenza: «In un paese antico come il nostro, dove non si è avuta una rivoluzione che sommovesse il popolo dal basso, il CLN rappresentava una prima manifestazione di compresenza di forze etico-politiche, con una volontà di amministrazione e di sviluppo democratico, che voleva salire fino alla forma dello Stato ed era già l’antitesi della monarchia». «Per trasformare tutta la società è dunque necessario cambiare il metodo, e far cominciare il cambiamento dal basso invece che dall’alto. Bisogna iniziare un controllo dal basso che dovrà crescere sempre più». Ed in effetti i COS si moltiplicarono, ed all’inizio erano molto affollati, ma poi declinarono piano piano anche per l’aperta ostilità dei partiti, compresi quelli progressisti. Capitini ne prese atto con rammarico, ma senza demoralizzarsi: «Quanti sono i democratici che hanno fatto vivere un COS, che hanno capito che questa era l’unica rivoluzione possibile in Italia, l’unica proveniente dal basso e dagli animi, dalla periferia delle ventiduemila parrocchie italiane? Si voleva che la libertà fosse non soltanto il fatto negativo di non aver più davanti e contro dei duri tiranni, ma un fatto positivo, che la libertà svolgesse sé stessa, tirando fuori idee e trasformazioni pratiche della realtà sociale. Buttar via la violenza, la vuotezza diseducatrice dei comizi; mettersi giù ad un lavoro di solidarietà e di formazione aperto a tutti, questo era ed è ancora da fare».

Da “religioso”, forte fu la sua polemica nei confronti della Democrazia Cristiana: «La prevalenza di un partito che aveva dato alla lotta antifascista un contributo troppo modesto rispetto al potere che detiene oggi, è proprio il segno e l’attività della restaurazione; che ha dissolto i CLN, ha salvato del fascismo tutto ciò, uomini e idee, che fosse conservazione, ha ristabilito in pieno (associandosi ad altre forze retrive) la vecchia burocrazia». E contro la chiesa cattolica, che accusava di connivenze “immorali” col fascismo prima e, dopo, con i medesimi circoli reazionari, passati (pressoché intatti) dal regime fascista a quello democristiano. Arrivò persino a scrivere al vescovo di Perugia per chiedere l’annullamento del proprio battesimo, in segno di non-collaborazione. Solo l’“apertura” può essere l’antitesi alla chiusura clericale e fascista; la compresenza di tutti gli uomini, uniti nella creazione dei valori; l’autogestione popolare in cui si concreta il progetto della omnicrazia. E la più forte tra le armi dell’antifascismo è appunto la nonviolenza, sinonimo di amore e di coerenza tra mezzi e fini, di moralità, di educazione spirituale alla libertà e all’eguaglianza: «L’educazione “profetica” è quella di colui che, con uno sguardo al futuro, è capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a costo di sembrare fuori dal suo tempo. Ogni società fino ad oggi è stata oligarchica, cioè governata da pochi; oggi specialmente il potere (un potere enorme) è in mano a pochi, in ogni paese. Bisogna invece arrivare ad una società di tutti, alla omnicrazia».

«Bisogna porre e allargare una vita morale e religiosa, culturale ed educativa, diversa e antitetica a quella dell’impero ecclesiastico cattolico; parallelamente, sul piano sociale e politico, bisogna promuovere tutto ciò che meglio realizza la società di tutti, crescendo la quale, attraverso libertà e giustizia, scadrà certamente l’influenza di una Chiesa assolutistica e dogmatica, e sorgerà il desiderio, nella grandissima maggioranza degli italiani, di liberarsi da un Concordato così malamente vincolante, e produttivo di una degenerazione nel vivente tessuto civile; si vedrà la possibilità di una vita religiosa intensa su una base giuridica sana di presenza di tutti, e non su quella malsana di ora, perché piena di privilegi. Dopo e senza il Concordato del gelido febbraio 1929 non c’è il vuoto, ma un pieno di vita elevata, aperta, di reciproco rispetto, di convivenza nella libertà, nel lavoro, nella cultura, e anche nella speranza e fede, se sapremo farla valere, in una realtà liberata».

Questa liberazione dell’uomo, di tutti gli uomini, si chiama socialismo; a patto di non ritrovarsi a costruire, nel suo nome, regimi altrettanto totalitari e oppressivi di quelli che si riesce ad abbattere: «In nome dell’uomo come “cittadino” e dell’uomo come “lavoratore” sono state fatte due rivoluzioni; noi oggi dobbiamo fare una terza rivoluzione, questa volta aperta o nonviolenta, che possiamo chiamare anche religiosa. Quel vedere l’uomo come “cittadino” e come “lavoratore” era un modo insufficiente, che astraeva un aspetto per estenderlo a tutto l’uomo. Da queste astrazioni non potevano venir fuori che totalitarismi falsi e oppressivi. Noi siamo liberali, ma non possiamo ammettere il dominio del capitalismo; siamo socialisti, ma non possiamo ammettere il totalitarismo burocratico statalista. Questo non è affatto moderatismo e quasi neutralizzazione reciproca dei due termini, libertà e socialismo; ma due rivoluzioni invece di una, massimo socialismo e massimo liberalismo. E perciò non la riluttanza ai due termini, ma anzi l’orgoglio di dirsi socialisti e liberali, con tutta la suggestione morale che questi due termini portano».

«Il campo più strettamente connesso con l’apostolato religioso è quello della trasformazione della società, per cui, rifiutando ogni carica offertami in campo politico, ho piegato la politica, e l’interesse in me fortissimo per essa, alla fondazione di un lavoro per una democrazia diretta, per il potere di tutti o omnicrazia (come lo chiamo). Per me è intrinsecamente connesso con la religione, e con la nonviolenza, di cui è l’idea politico-sociale».

«Noi non abbiamo paura della parola “rivoluzione”, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male sociale, che è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite». Ma senza violenza: «Avete ragione di essere insoddisfatti di questa società sbagliata e ingiusta, ma come potrete voi cambiare tutto e subito? Volete distruggere le persone che vedete come avversarie, e anche quelle che sospettate di non essere rivoluzionarie? Volete che la rivoluzione avanzi con le stragi, le torture, il governo assoluto di un gruppo che impedisca a tanti altri di parlare, di informarsi, di fare critiche, di vivere? Noi vogliamo una società di tutti, e cominceremo con l’ammazzare migliaia di persone? Vogliamo una società amorevole, e cominceremo col coltivare e stimolare l’odio? Vogliamo una società libera, e aumenteremo la tirannia, l’assolutismo? Vogliamo un fine buono e pulito, e useremo mezzi sporchi e terribili? L’uso della violenza lascia residui gravissimi, produce conseguenze anti-rinnovatrici; si veda per esempio la mancanza della libertà di informazione, di critica, di espressione, di associazione, che è costata la trasformazione violenta delle strutture in Russia; non vale dire che “il fine giustifica i mezzi” quando i mezzi hanno conseguenze che costano troppo rispetto al fine».

Ed anche guardando al “fine”, «la scelta della rivoluzione nonviolenta al posto di quella violenta dipende dalla fiducia che i mezzi della nonviolenza assicurano, a lungo andare, una maggiore stabilità alle conquiste». «A noi pare che ci siano due posizioni sbagliate: quella di coloro che vogliono trasformare la società usando la violenza di minoranze dittatoriali, e quella di coloro che dicono di volere la pace, ma lasciano effettivamente la società così com’è, con i privilegi, i pregiudizi, lo sfruttamento, l’intolleranza, il potere in mano a pochi».

«Una rivoluzione è una serie di atti collettivi rivolti a cambiare il possesso del potere, a trasformare le strutture sociali e politiche, a influire sugli animi delle persone. Ma ogni rivoluzione ha un suo carattere. E quella che noi sosteniamo ha il carattere di essere la più totale che sia stata proposta, non solo per gli animi nel profondo e per le strutture che debbono essere adeguate ad una società veramente di tutti, ma soprattutto per la convocazione di tutti ad operare il nuovo corso. Non si tratta di formare un gruppo di convinti e di lanciarli nell’azione con tutti i mezzi, ma di far partecipare tutti. Si devono creare tanti centri di controllo dal basso».

«La soluzione marxista, pur essendo più vicina alla realtà di tutti, per la finalità universale di liberazione di tutti, aveva il difetto di non fornire mezzi adeguati ad una parte della società civile, quella proletaria, per realizzarsi nel modo richiesto dalla compresenza. La violenza e la dittatura, concepite come mezzi dal marxismo, non sono gli strumenti adeguati per trasformare gli elementi di naturalità e violenza viventi nella società civile». «La rivoluzione socialista nonviolenta, che viene dal basso per opera di tutti, organizzerà il potere contrastando il vecchio centralismo con le assemblee e l’opinione pubblica, e sostituendolo con la diffusione, il consolidamento e il contributo di quella rete di associazioni, di centri creati e gestiti dai cittadini in tutti i luoghi dell’amministrazione, della produzione, dei servizi, del territorio; la stessa rete che produce il consenso e permette la conquista democratica della maggioranza per governare».

È interessante notare come la nonviolenza, in Capitini, non sia intesa come un dogma, ma come un ideale, un “dover essere” da calare progressivamente e pragmaticamente nel reale, senza fondamentalismi, in modo dialettico. Lo si vede dall’estrema apertura verso i “non-nonviolenti” (se ci si passa l’espressione) presenti alle sue marce pacifiste, ed anche in molte sue affermazioni dirette, tra cui quella in cui si dichiara sostanzialmente d’accordo con la posizione di Antonio Gramsci sull’aspetto coercitivo del potere. Scriveva infatti il fondatore del Pci dal carcere fascista: «L’elemento coercizione si può immaginare esaurentesi a mano a mano che si affermano elementi sempre più cospicui di società regolata. Da una fase in cui Stato sarà uguale a governo, si dovrà passare ad una fase di Stato-guardiano notturno, cioè di un’organizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento e perciò riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi». E Capitini annota:  «Si capisce che in un periodo di transizione, lungo o breve che sia, potrà avvenire ciò che dice Gramsci, e abbiamo detto più volte anche noi: che finché ci saranno persuasi della nonviolenza e non persuasi, accadrà che saranno usate forze dell’ordine, tutele coercitive di tipo “guardiano notturno”, riducenti gradatamente i propri interventi».

E altrove: «Mentre non è possibile collaborare ad una violenza che prende la mano rispetto al motivo originario della convivenza sociale in cui le istituzioni sono strumento del potere di tutti, è invece possibile stare accanto a chi semplicemente usi la violenza entro la stretta disciplina di giovare alla convivenza di tutti nella loro evoluzione, una violenza in ambito modesto, strettamente condizionata dai modi (quante armi si possono usare che non uccidono!) accompagnata costantemente da un soffio omnicratico. Il persuaso della nonviolenza può, personalmente, non usare nemmeno questo tipo di violenza, se il suo compito è di richiamare costantemente il fine; ma comprende che c’è violenza e violenza, e quella per mantenere la convivenza di tutti è più giustificata di ogni altra».

Nessuna giustificazione invece, ed anzi «rifiuto assoluto della guerra e della guerriglia, della tortura e del terrorismo; un rifiuto che è il punto di partenza, la svolta, la condizione assoluta di una nuova impostazione del potere». «È chiaro che bisogna arrivare a moltitudini che rifiutino la guerra, che blocchino con le tecniche nonviolente il potere che voglia imporre la guerra. L’Europa ha sofferto per non aver avuto queste moltitudini di dissidenza assoluta, per esempio riguardo al potere dei fascisti e dei nazisti». «L’omnicrazia deve prender corpo anche in questo modo: nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti; ma questa capacità ha il suo collaudo nel rifiuto della guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo».

Dalle coscienze degli uomini debbono partite oggi «tre ondate di fondo: una rivoluzione religiosa che renda impossibile lo scandalo dell’Occidente che si dice cristiano per bocca dei suoi capi ma provoca guerre, sfruttamenti, oppressioni; un’altra ondata contro il capitalismo per una produzione e distribuzione impostate diversamente; e una terza ondata contro la guerra, contro la sua teoria, la sua preparazione, la sua esecuzione».

«Nell’idea di fratellanza dei popoli si riassumono i problemi urgenti di questo tempo: il superamento dell’imperialismo, del razzismo, del colonialismo, dello sfruttamento; l’incontro dell’Occidente con l’Oriente asiatico e con i popoli africani; la fratellanza degli europei con le popolazioni di colore; l’impianto di giganteschi piani di collaborazione culturale, tecnica ed economica».

Ha scritto Norberto Bobbio: «Capitini ebbe sempre ben chiaro in mente che l’ideale della nonviolenza, nella tradizione del pensiero politico italiano, era la novità assoluta della sua opera. Molta strada ha fatto anche in Italia l’idea che la nonviolenza non è un sogno da visionari, un’illusione da spiriti deboli, un’evasione dalla realtà, se non addirittura una stravaganza che gli spiriti forti non debbono prendere troppo sul serio, ma un ideale da perseguire senza illusioni, con tenacia, con serietà, con la convinzione che la potenza degli strumenti della violenza è tale da richiedere un mutamento radicale nelle nostre riflessioni sul passato e del nostro modo di andare incontro all’avvenire».

La radicalità delle idee politiche del pacifista umbro è testimoniata anche dalla netta critica al cosiddetto riformismo, espressa con annotazioni quanto mai attuali: «Una prova della difficoltà o impossibilità da parte del sia del riformismo che dell’autoritarismo di formare l’“uomo nuovo” sta nel fatto che l’uno e l’altro sono disposti ad usare lo strumento guerra». «È chiaro che la costruzione nonviolenta non è riformismo». I riformisti «finiscono per accontentarsi di qualche pezzo di potere, mentre noi lo vogliamo tutto e per tutti». «Ciò che dal basso deve maturare, secondo la teoria di Marx, corre sempre il rischio di incanalarsi nel riformismo, senza mirare con preminente tensione ad una società profondamente rinnovata nel suo spirito e in tutte le sue strutture e procedimenti».

Invece il fermento della democrazia popolare, “dal basso” appunto, rappresenta la radicalità (democratica) del marxismo e la sua radicale alterità rispetto ai compromessi “riformistici”: «La teoria di Marx, della classe proletaria che si prepara all’esercizio del potere con la coscienza della sua situazione di contrasto con la classe borghese capitalistica, mediante l’azione politica, finché la crescente democratizzazione conquista il potere senza violenza o con un minino di violenza (come fa l’ostetrica nel parto), appunto perché la classe era divenuta capace di operare la trasformazione di tutta la società, contava su questo lavoro aperto, politico e democratico come preliminare del potere e della nuova società». A differenza dell’applicazione leninista del marxismo stesso: «La teoria del Lenin contò, invece, sul gruppo rivoluzionario, che coglieva l’occasione del disfacimento dell’esercito e del paese per prendere il potere; e un duro esercizio del potere stesso ne fu la conseguenza, con la mancanza di freni all’involuzione nell’autoritarismo e nel terrore». A Marx, anziché Lenin, va associato… Gandhi: «Col metodo di Gandhi le armi le abbiamo già, e possiamo cominciare subito la rivoluzione; le armi dell’unione con altri, della solidarietà, della protesta nonviolenta, dello sciopero a rovescio, della non-collaborazione col male, del sacrificio; e queste armi le usano con maggiore efficienza i poveri, i deboli, i sofferenti, gli ultimi; mettiamoci dunque con loro».

Gli “ultimi” di Capitini non si fermano alla classe operaia, o a quella contadina; ai disoccupati e neppure ai più poveri economicamente. Bensì arrivano a comprendere quegli esseri umani che egli chiama di volta in volta gli esclusi, i sofferenti, i torturati, i depressi, i reietti, i “non efficienti”, gli “sfiniti”, i “languenti”, gli “annullati”, gli “scomparsi”, i “colpiti dal mondo”. Il suo è uno sguardo penetrante, intriso di amorevole compassione ma anche di risoluta combattività, dentro l’abisso profondo della condizione umana. «Davanti a questo orizzonte non mi perdo, perché l’ho sempre indicato… A me importa fondamentalmente l’impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni, per mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione, del mio atto, che, anche se non è visto da nessuno, ha il suo peso alla presenza e per la presenza di Dio».

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