Jean-Paul Sartre

Jean Paul Sartre

di GIANCARLO IACCHINI

Dalle macerie, materiali e psicologiche, della seconda guerra mondiale rinasce l’esistenzialismo, riprendendo da Kierkegaard i temi della vita umana, della singolarità degli individui, della (drammatica) libertà nelle scelte fondamentali (l’aut-aut) e della conseguente angoscia esistenziale, ma togliendo l’ultimo “appiglio” del vecchio filosofo danese, e cioè la fede in Dio. Solo Dio infatti potrebbe garantire a priori il senso dell’essere, dice Jean-Paul Sartre (1905-1980), ma Dio non esiste. Dunque l’essere non ha spiegazioni, non ha significati, non ha senso. «L’esistenza precede l’essenza», ovvero le cose della natura – e dunque anche gli esseri umani – prima vengono al mondo e poi, successivamente, si trovano per essi possibili spiegazioni o significati. Ma mentre le cose materiali esistono soltanto in sé, immutabili e “opache”, la coscienza dell’uomo esiste per sé, cioè è capace di riflettere sull’esistenza. Essa non è un “essere” come gli altri, non è una cosa specifica, non è niente di determinato, non è… niente appunto: è “il nulla”.

Sartre descrive nell’opera L’essere e il nulla (1943) questa dialettica tra l’uomo e le cose. L’uomo è svincolato dai rapporti causali che legano e “immobilizzano” l’essere: egli può in ogni momento “nullificare” il passato ed è sempre libero di progettare il futuro, superando (“trascendendo”) continuamente il presente, l’esistente («Solo proiettandosi fuori di sé e perseguendo fini “trascendenti” egli può esistere»). Dunque che cos’è l’uomo? «Non è altro che ciò che si fa: questo è il principio fondamentale dell’esistenzialismo». In altre parole: «L’uomo sarà anzitutto quello che avrà progettato di essere». La sua libertà è la sua “condanna”, perché fa gravare su di lui un’enorme responsabilità, per sé e per gli altri: «Una volta gettato nel mondo, egli è responsabile di tutto ciò che fa». Nessun “determinismo” lo vincola: né l’ambiente naturale, né la famiglia, né la società, né l’educazione. Nessuna “causa” e nessun “obbligo” può giustificare le sue scelte: perfino il soldato in guerra può rifiutarsi di uccidere, se è disposto a pagare le conseguenze del suo rifiuto e della sua ribellione; un’alternativa c’è sempre.

In un primo tempo Sartre, sulla scia di Kierkegaard, è atterrito da questa libertà così totale, che paralizza la coscienza e inchioda l’uomo alle sue drammatiche responsabilità (una sorta di… insostenibile leggerezza dell’essere, come Kundera aveva ben compreso nel suo capolavoro letterario) e diventa fonte di angoscia, se non addirittura di nausea (vedi l’omonimo romanzo sartriano), tanto imbarazzante e spiazzante si rivela l’insensatezza della vita in sé. Ma dopo la tragica esperienza del nazismo, della guerra e della deportazione in un campo di concentramento, ed alla luce della straordinaria esperienza umana e politica rappresentata per lui dalla partecipazione alla Resistenza, Sartre cambia radicalmente opinione sulla libertà: dopo che tutti ne sono stati privati in maniera così drastica e violenta, ne rivaluta profondamente il valore. Adesso la “scelta” (partigiana e antifascista, per esempio) diventa motivo di coraggio e di fierezza; adesso l’assenza di qualsiasi determinismo valorizza al massimo la decisione (e il merito) di lottare per la libertà di ciascuno, per i diritti individuali e sociali; adesso l’uomo libero può utilmente scegliere l’impegno (engagement) per cambiare la realtà esistente, a vantaggio di tutti gli esseri umani.

E allora, come dice il titolo di un altro importante libro (anzi opuscolo) scritto da Sartre nell’immediato dopoguerra, l’esistenzialismo diventa un umanismo, cioè una filosofia per l’uomo («umanismo, perché noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro legislatore fuori di lui, che non c’è altro universo che un universo umano, l’universo della soggettività umana») e per la sua libertà, la propria e quella degli altri. Già : gli altri uomini, che nel primo Sartre venivano visti con disagio e timore («L’inferno sono gli altri!») perché trasformano il “soggetto” in un oggetto soltanto con un semplice sguardo, adesso vengono “riscoperti” attraverso l’impegno: «Poiché vi è un impegno, io sono obbligato a volere, contemporaneamente alla libertà mia, la libertà degli altri».

Questo aumenta la responsabilità delle scelte: «Ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini. Infatti, non c’è nemmeno uno dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere, non crei nello stesso tempo un’immagine dell’uomo come noi crediamo debba essere». E con l’attività politico e sociale, la praxis, viene superato tutto il pessimismo precedente: «Non c’è anzi dottrina più ottimistica, perché per l’esistenzialismo il destino dell’uomo è nell’uomo stesso».

L’impegno coincide con l’azione pratica («Non c’è realtà che nell’azione»), perciò l’esistenzialismo è «una morale dell’azione e dell’impegno». Per queste ragioni, nonostante la netta opposizione al materialismo («Noi vogliamo istituire il regno umano come un insieme di valori distinti dal regno materiale») Sartre si avvicina sempre più al marxismo fino a considerarlo “la filosofia insuperabile dei nostri tempi”, ma ne critica l’eccessivo “economicismo”, respinge quel determinismo “dialettico” secondo cui la rivoluzione e il socialismo sarebbero “storicamente inevitabili” e condanna senza appello il comunismo sovietico e lo stalinismo. Appoggia invece le lotte libertarie degli “oppressi” in tutto il mondo, e sollecita l’impegno politico degli intellettuali per combattere le ingiustizie e le guerre, sempre alla luce del suo “umanismo” liberamente scelto non soltanto come concezione del mondo, ma come vera e propria etica. «Dire che noi inventiamo i valori non significa altro che questo: la vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate, la vita non è nulla, ma sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete».

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