1. Il radicalsocialismo che proponiamo, attraverso la fondazione del Movimento RadicalSocialista (MRS), è un ideale politico che mira ad unire, rinnovare e rilanciare le espressioni più aperte e progressiste del pensiero liberale e le istanze più genuinamente libertarie del movimento socialista. Si tratta pertanto di una concezione doppiamente rivoluzionaria, che si prefigge la conquista della libertà individuale più piena e della democrazia più radicale e sostanziale sia nella sfera dei diritti politici e civili, che in quella economico-sociale, sfuggendo in tal modo alla storica antitesi tra il vecchio liberalismo – elitario, conservatore e perfino reazionario di fronte all’inarrestabile avanzata della democrazia – ed il socialismo europeo finora conosciuto, spesso burocratico, “massificante” e conformista anche nella sua versione socialdemocratica. Il radicalsocialismo rifiuta infatti sia la soggezione allo sfruttamento economico e alle diseguaglianze di un mercato tutt’altro che “libero”, pur di sfuggire all’oppressione dello stato; sia la passiva sottomissione al Leviatano politico pur di “rimediare” alle intollerabili ingiustizie del capitalismo. Assomma dunque in sé, per questa duplice ambizione, la carica progressista e libertaria tanto della più dinamica democrazia liberale, quanto della più radicale critica socialista agli attuali rapporti di produzione.
2. Il nuovo radicalsocialismo affonda innanzitutto le sue radici nell’insegnamento libertario di Piero Gobetti e della sua “rivoluzione liberale”, lucida e geniale intuizione non a caso immediatamente distrutta dalla barbarie fascista insieme alla vita stessa del giovane intellettuale torinese, amico e collaboratore di un altro eroe dell’antifascismo: il comunista Antonio Gramsci. La rivoluzione liberale e il marxismo libertario hanno in comune un’impostazione metodologica che facciamo nostra: umanistica, razionale, critica, radicalmente antidogmatica, refrattaria e irriducibile a qualunque ortodossia. Marx e Gobetti condividono e ci consegnano un’interpretazione dinamica della vita e della storia: un panta rei che si esprime attraverso l’incessante e libero confronto di soggetti antagonisti. Per entrambi (ed anche per altri creativi assertori di questa stessa dialettica libertaria, come l’italiano Carlo Cattaneo e l’americano John Dewey), le contraddizioni tra idee e gruppi sociali non sono “difetti” da mascherare o sopprimere, ma aspetti fisiologici della realtà e del pensiero; fattori di ricchezza civile; inesauribili motori del progresso. Una dialettica la cui “sintesi” armonica risieda solo nel carattere nonviolento di tali antagonismi, e pertanto resti aperta, imprevedibile, affidata in pieno alla soggettività umana; senza mai cristallizzarsi in un’ideologia schematica e atrofizzata, né coltivare l’illusione di potersi “chiudere” con il raggiungimento di un assetto “ideale” e definitivo della società, che pretenda di appianare tutti i contrasti e (quel ch’è peggio) soffocare ogni dissenso.
3. L’agghiacciante deriva stalinista dell’idea di eguaglianza, che aveva completamente rovesciato l’ispirazione libertaria della critica marxiana allo sfruttamento e all’alienazione (espressa tra l’altro nella celebre tesi sul “regno della libertà” con cui sostituire quello “della necessità”), era ben presente ai continuatori “liberalsocialisti” dell’opera di Gobetti. Martire antifascista anch’egli insieme al fratello Nello, fu Carlo Rosselli a proseguire la fruttuosa ricerca nell’opera Socialismo liberale; e Guido Calogero, con il Manifesto del Liberalsocialismo, ebbe il merito di riassumere i capisaldi della concezione alla quale noi radicalsocialisti ci richiamiamo, e che ha generato le esperienze politiche del movimento Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione. «Finché rimane patrimonio di una élite – spiega Rosselli – l’idea liberale resta una pura astrazione. Non bastano, per realizzare la sua esigenza fondamentale, le libertà politiche e giuridiche finché saranno accompagnate dalla miseria e dalla schiavitù, dalla soggezione non solo nella fabbrica ma anche nella vita. E proprio per assicurare a tutti gli uomini, come liberali, una libertà effettiva, come socialisti chiediamo un’equa distribuzione della ricchezza». E ancora, dal Manifesto di Calogero: «Non si può essere seriamente liberali senza essere socialisti, né essere seriamente socialisti senza essere liberali. Chi è pervenuto a questa convinzione e si è persuaso che la civiltà tanto meglio procede quanto più la coscienza e gli istituti del liberalismo lavorano per inventare ed instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gli istituti del socialismo a rendere sempre più possibile e intensa e diffusa tale opera della libertà, ha raggiunto il piano del liberalsocialismo». Già Gobetti lo aveva intuito: «La questione sociale non è un problema di eguaglianza, ma di libertà». Ed oggi è definitivamente maturata la consapevolezza che la lotta per l’eguaglianza non può essere disgiunta dalla più risoluta garanzia e valorizzazione delle differenze, delle diversità e in definitiva dell’insopprimibile unicità della persona. Diventare “uguali”, di per sé, non può essere il fine; poiché (come la storia dimostra) può significare appiattimento, spersonalizzazione, omologazione, conformismo, demotivazione, mortificazione dei talenti, annullamento dei meriti e delle aspirazioni individuali. Il nuovo umanesimo sociale che proponiamo ha come fine la libertà, intesa dinamicamente come continua liberazione: un processo ininterrotto di affrancamento da ogni forma di oppressione; di crescente autonomia e consapevolezza; di pieno sviluppo della personalità; di armonica relazione del singolo con la società e la natura; di conquista delle condizioni indispensabili per garantire concretamente il diritto alla realizzazione personale e alla libera ricerca della felicità.
4. Il nostro ideale politico si può quindi riassumere con l’espressione “libertà eguale”, in cui il traguardo è la liberazione integrale dell’individuo, ma la lotta socialista per l’eguaglianza diventa lo strumento necessario per rendere questa emancipazione realmente alla portata di tutti gli individui. «Nel binomio giustizia e libertà – riassume Piero Calamandrei, uno dei maggiori artefici della Costituzione repubblicana – la giustizia è il mezzo e la libertà il fine». Per noi radicalsocialisti, la causa della giustizia sociale consiste nell’equa ripartizione delle libertà individuali, nel diritto alla libertà più piena esteso a tutti gli esseri umani. «Così in sostanza non c’è alcuna differenza – può concludere Calogero – tra il volere la giustizia sociale e il volere la libertà individuale. Esiste una complementarietà assoluta tra questi due aspetti della stessa idea». E quel doppio “volere” indica inoltre una forte rivalutazione della dimensione etica, dell’autonomia decisionale della persona, della responsabilità umana contro ogni determinismo “provvidenzialistico” anche di natura economica: «Concepiamo la libertà – spiega Rosselli – non come un dato di natura, ma come divenire, sviluppo. Non si nasce liberi, si diventa liberi! E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza della propria autonomia ed esercitando costantemente i propri diritti alla libertà». Allo stesso modo «l’eguaglianza degli uomini non è né una loro natura né un loro destino, ma un nostro dovere»; finalizzato a sua volta, come conferma il filosofo statunitense John Rawls nella sua Teoria della giustizia, a garantire la libertà per tutti, punto numero uno del contratto sociale stipulato da persone libere e razionali, mosse da quel criterio di equità (in cui comprendere non solo le “pari opportunità” iniziali, ma l’elevazione continua dei “meno avvantaggiati”) che può unire i valori di libertà, eguaglianza e solidarietà, armonizzando l’“utile”, il “giusto” e il “buono” individuale con il bene comune.
Dal che si deduce che una teoria come la nostra, fondata essenzialmente sulla rivendicazione di diritti, non annulla affatto la consapevolezza dei doveri, con buona pace dei moralisti di ieri e di oggi: l’imperativo categorico del dovere (etico prima ancora che giuridico) connesso alla garanzia dei propri diritti, consiste infatti nel più scrupoloso rispetto degli uguali diritti altrui.
5. Se dunque il bagaglio del liberalsocialismo italiano fa parte integrante del nostro dna politico, noi preferiamo parlare tuttavia di radicalsocialismo. La scelta del termine “radicale” al posto di “liberale” non è dettata da una semplice esigenza di innovazione linguistica. Vogliamo innanzitutto distanziarci nettamente dalla connotazione di destra e filo-padronale che l’etichetta “liberale”, abbinata senza alcun distinguo a “liberista”, ha assunto di fatto nelle vicende politiche di questo paese, dove Piero Gobetti è sempre rimasto lo strano “ircocervo” di cui parlava Benedetto Croce.
Vogliamo inoltre meglio rimarcare il carattere dinamico e antagonista della libertà: intesa non come un assetto istituzionale già compiuto e ormai solo da conservare, bensì come liberazione politica e sociale da conquistare giorno dopo giorno, «rimuovendo» progressivamente, come recita il fondamentale articolo 3 della Costituzione (redatto dall’azionista Calamandrei), «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Vogliamo infine evidenziare con forza il valore per noi irrinunciabile della laicità, intesa innanzitutto come completa separazione dello stato da tutte le chiese, comunità e associazioni religiose o anche atee. Nella convinzione che solo uno stato rigorosamente laico possa garantire la libera espressione di ogni fede o etica individuale, nonché la convivenza delle più diverse concezioni religiose e filosofiche professate entro i suoi confini.
Constatiamo tuttavia che questa idea così semplice, lineare e apparentemente ovvia di laicità non si è ancora affermata nel nostro Paese, a causa soprattutto dell’abnorme potere (politico e mediatico) della Chiesa cattolica, degli ingiustificati privilegi elargiti al Vaticano ed alle sue istituzioni, delle continue ingerenze clericali nella vita politica italiana, delle reiterate campagne volte a contestare e addirittura boicottare leggi delle stato non gradite alla gerarchia episcopale, o a bloccare sul nascere proposte di legge che hanno la “colpa” di estendere la sfera dei diritti civili a cittadini che ne sono ingiustamente esclusi. Ma al di là delle interferenze vaticane, la laicità dello stato è messa in discussione anche dalla sudditanza culturale di tanta parte dell’opinione pubblica italiana nei confronti della Chiesa, come dimostra lo spazio esagerato che viene quotidianamente concesso da giornali e televisioni alle posizioni del papa e dei vescovi su ogni argomento o problema della società civile.
Di qui il conseguente, irriducibile impegno dei radicalsocialisti in difesa del pluralismo etico e religioso, e contro ogni manifestazione di oscurantismo clericale, così come di integralismo e fondamentalismo di qualsiasi natura. In questo ci ricolleghiamo alla stagione delle grandi lotte libertarie degli anni Settanta, per la conquista di fondamentali diritti civili a vantaggio soprattutto delle donne, oppresse da secoli di discriminazione sessuale: la causa dell’emancipazione femminile, che unisce il diritto all’eguaglianza all’altrettanto preziosa cultura della “differenza”, rappresenta per noi un’emblematica conferma di quanto sia fecondo il concetto di “libertà eguale”.
In quelle meritorie campagne di civiltà i radicali furono in prima fila; ma il mancato incontro tra la causa libertaria e quella sociale, e il fallito radicamento di quelle istanze laiche sul terreno storico della sinistra italiana – indubbiamente anche per responsabilità di quest’ultima e della sua arretratezza culturale – hanno determinato il successivo riflusso a destra del Pr, tradendo in modo evidente l’eredità politica del suo antico fondatore Felice Cavallotti, artefice (non solo contro la Destra conservatrice ma anche contro il trasformismo della cosiddetta Sinistra Storica) del primo raggruppamento di “Estrema sinistra” nel parlamento del Regno d’Italia. Così il filo rosso del radicalismo italiano, proseguito egregiamente con Gobetti ed anche con la carica polemica di Ernesto Rossi verso le trame politico-finanziarie del Vaticano e gli arroganti “padroni del vapore” del mondo industriale e bancario, è stato colpevolmente spezzato. E con esso si è lasciato cadere, impedendo che facesse breccia anche in Italia, l’esempio proveniente dalle più combattive espressioni del movimento “liberal” nei paesi anglosassoni, animate di volta in volta dalle idee radicali di pensatori anticonformisti quali Mill, Dewey, Russell o Chomsky. Noi intendiamo riprendere e rilanciare con convinzione questo filone radicalmente laico e illuminista, superandone i limiti storici grazie appunto all’incontro con la critica socialista del capitalismo.
6. Dalla riformulazione del concetto di eguaglianza come “libertà eguale”, si può dedurre che il radicalsocialismo sottopone a critica e intende rinnovare in profondità lo stesso ideale socialista. Oggi, a tre decenni dalla caduta del Muro di Berlino, non abbiamo certo bisogno – come ai tempi del liberalsocialismo – di definire la nostra identità in rapporto al “socialismo reale” di marca sovietica. Non soltanto per il suo carattere dittatoriale e repressivo, ma per la struttura stessa dei regimi edificati nell’Europa dell’est e in Asia – e nonostante un’abile propaganda ideologica che ha tratto in inganno per decenni milioni di lavoratori in tutto il mondo – il comunismo stalinista e post-stalinista rientra appieno nel concetto di totalitarismo proposto da Hannah Arendt; e dunque si colloca agli antipodi del socialismo in cui crediamo.
Grossolanamente tradito dalla falsa realizzazione storica del suo insegnamento, è semmai da riscoprire il Karl Marx originario e autentico; la sua critica radicale dell’alienazione, della merce come “feticcio”, del “valore di scambio” che soppianta il “valore d’uso”, della mercificazione dei rapporti umani, dell’alienazione e spersonalizzazione dell’individuo nel lavoro e nella vita stessa all’interno del capitalismo, dove l’avere prevale sull’essere e la logica del massimo profitto rende il denaro la sola unità di misura di tutti i valori, compresi quelli della coscienza. Una critica che nei Manoscritti economico-filosofici è profeticamente allargata a quel “comunismo volgare”, tutto interno alla “logica borghese”, che pretende di riscattare la condizione operaia «estendendola a tutti gli uomini», collettivizzando “l’avere” invece di recuperare “l’essere” alienato, e dimostrando in tal modo «quanto poco questa soppressione della proprietà privata sia una reale appropriazione». Secondo il Marx umanista, tuttora sconosciuto a molti sedicenti marxisti, «il comunismo che nega la personalità dell’uomo è solo l’espressione conseguente della proprietà privata, che è tale negazione. Per esso la comunità è soltanto comunità del lavoro ed eguaglianza del salario, pagato dallo stato come capitalista generale. Questo comunismo rozzo, prima soppressione della proprietà privata, è così soltanto una manifestazione della bassezza della proprietà privata che intende porsi come comunità, e resta affetto dall’alienazione umana».
In queste sorprendenti pagine marxiane, “materialista” è piuttosto il sistema economico dominante, con i suoi valori “reificati”: «La proprietà privata ci ha fatti talmente ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo, quando esiste per noi come capitale o è immediatamente posseduto, usato, consumato. Tutti i sensi fisici e spirituali sono stati sostituiti dalla loro alienazione, cioè dal senso dell’avere». E allora «la soppressione effettiva della proprietà privata, cioè l’appropriazione sensibile dell’esistenza e delle opere umane, non è da prendersi solamente nel senso del possedere, ma dev’essere la completa emancipazione di tutti i sensi e qualità umane, la fine della natura egoistica del bisogno e del godimento. Solo allora l’utile sarà diventato un utile umano; e l’emancipazione sarà la riappropriazione dei sentimenti e dello spirito propri e degli altri uomini. Dal che si comprende come solo nella socialità e nell’energia pratica dell’uomo spiritualismo e materialismo perdano la loro opposizione».
Così Erich Fromm, fautore (con Herbert Marcuse ed altri esponenti della gloriosa Scuola di Francoforte) di un nuovo umanesimo di matrice socialista, dopo aver approfondito le tesi del Marx più “radicale” in tutte le loro implicazioni psicologiche e sociologiche, può autorevolmente definire l’idea di socialismo che ne consegue: «Una società della libertà e del benessere, il cui vero scopo è la compiuta realizzazione dell’uomo».
7. La tensione etica verso un homo novus che trovi il proprio “rinascimento” nella conquista di una piena autonomia materiale e spirituale – unita ad un legame libero, volontario, spontaneo e consapevole con la società e la natura di cui è parte attiva – ci spinge però a rifiutare il lato deterministico del marxismo, e con esso ogni fatalismo e “bronzea necessità” di “crisi ultime” o rivoluzioni “storicamente inevitabili”. Questa contaminazione positivistica (le “magnifiche sorti e progressive” tipicamente borghesi verso cui si indirizzava il disilluso sarcasmo di Giacomo Leopardi) ha condizionato la tradizione socialdemocratica in tutto il vecchio continente, senza troppe distinzioni effettive tra gli “ortodossi” alla Kautsky, che attendevano pazienti la “maturazione” dell’evoluzione storico-sociale prima di fare i… rivoluzionari – e intanto nella prassi quotidiana facevano i riformisti sempre più sbiaditi – ed i “revisionisti” alla Bernstein, che quella stessa deriva moderata avevano apertamente teorizzato; fino al comune capolinea del voto “patriottico” in favore dei crediti di guerra e della tragica repressione del moto spartachista di Rosa Luxemburg, in una Germania già gravida del nazismo. Con quel celebre dibattito interno alla Seconda Internazionale, cominciava il pendolo di un socialismo europeo (ed anche italiano) che rimpallando dal comunismo ad una democrazia sempre più generica e sempre meno “sociale”, non è mai stato veramente radicale.
Di fronte al sempre più evidente “imborghesimento” del socialismo riformista – che pure ha il merito storico di aver contribuito al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e alla loro crescente partecipazione alla vita politica – non va lasciata cadere, a nostro avviso, la convinzione innanzitutto morale che “un altro mondo è possibile”: la razionale e realistica utopia di un avvenire che superi gli angusti limiti del sistema economico fondato sulla mercificazione del lavoro e dell’esistenza, e metta in discussione la stessa proprietà privata dei mezzi di produzione; di un “dover essere” etico e politico che trascenda l’orizzonte dell’esistente, in nome di valori universali quali la libertà e la giustizia. Una prospettiva che insomma, pur nella risoluta difesa dello “stato sociale” (secondo gli schemi antiliberisti del New Deal americano e del socialdemocratico Welfare costruito in Europa nella seconda metà del Novecento), non si fermi alla dimensione redistributiva della ricchezza generata dal sistema così com’è, ma si spinga fino a prefigurare alternative radicali al modo capitalistico di produrre e di consumare: e cioè a quello schema keynesiano di “più consumo” uguale “più produzione” (e viceversa) che ha esercitato una indubbia funzione democratica e progressista di fronte al liberismo vecchio e nuovo, ma che oggi mostra clamorosamente la corda di fronte alla grave emergenza ecologica ed energetica a cui stiamo assistendo all’inizio del terzo millennio.
Non è un caso se ambientalismo, pacifismo, femminismo, diritti civili, laicità, contestazione giovanile ed il ricorrente bisogno di una “nuova sinistra” più aperta e radicale hanno continuamente spiazzato e colto di sorpresa le socialdemocrazie europee; fino al movimento “no global”, che ha potentemente rilanciato quella critica della globalizzazione imperialistica già cominciata un secolo prima con le lucide intuizioni “anti-riformiste” di Rosa Luxemburg sulla scala geograficamente sempre più allargata dell’accumulazione del capitale, e la tendenza aggressiva ed espansionistica che ne sarebbe conseguita. A questo proposito è bene distinguere con chiarezza: il radicalsocialismo dice sì alla globalizzazione dei diritti, della pace, del benessere e del progresso; no invece a quella del capitale e dei suoi “valori” (di borsa più che morali), dello sfruttamento, delle armi che alimentano le guerre e il terrorismo, del conformismo e dell’appiattimento culturale che cancellano civiltà locali, autonomie, minoranze e differenze.
Di fronte ai nuovi diritti (delle donne, dei gay, ecc.) e alle nuove povertà (disoccupati, immigrati, emarginati), il socialismo europeo – sul cui terreno si è sostanzialmente collocato anche il Pci nonostante la sua dichiarata “diversità” – ha dato spesso l’impressione di avere definitivamente accettato il “sistema” e le sue logiche di fondo; di rappresentare soprattutto i “garantiti”; di non riuscire a incidere sulle dinamiche del mercato, decise sempre più spesso da incontrollabili organismi sovranazionali, nonostante l’ipertrofico sviluppo delle singole burocrazie statali.
8. Perciò sono entrambe da ripensare e superare le due maggiori correnti ideali in cui si è articolato finora il pensiero democratico in Europa. La “fede” che ha sempre accomunato liberalismo e socialismo, quella nel progresso e nello sviluppo (economico, scientifico e tecnologico) – a partire dal dogma della “produttività del lavoro” che unisce Karl Marx a Adam Smith – si sta ormai sgretolando davanti ai nostri occhi; così come il mito del consumismo, compreso il keynesiano sostegno statale alla domanda per consentire un aumento illimitato della produzione. Più ancora della contraddizione tra capitale e lavoro (impossibilità di comprimere ulteriormente salari, stipendi, pensioni e spese sociali per aumentare profitti e rendite), è la contraddizione del capitale con la natura a mostrare i limiti del neoliberismo che si è scatenato negli anni Ottanta fino ad ergersi a pensiero unico, senza trovare alternative credibili da parte di una sinistra che si è mossa finora sullo stesso terreno “progressista” e produttivista.
Il mito della crescita illimitata è oggi messo in discussione ovunque si abbiano a cuore le sorti della natura, della salute e della stessa vita sul nostro pianeta, di fronte agli enormi danni ecologici prodotti da questo modello di progresso “quantitativo”. Perfino il volenteroso concetto di “sviluppo sostenibile” rischia di diventare una chimera, di fronte al micidiale stringersi della tenaglia rappresentata per un verso dall’esaurimento della principale fonte di energia (quella petrolifera) che ha alimentato la crescita economica a partire dalla seconda rivoluzione industriale, e per l’altro verso dal progressivo surriscaldamento del clima globale.
Le analisi dell’economista statunitense Jeremy Rifkin sulle conseguenze ecologiche del principio di entropia, ma anche gli studi di molti tra i maggiori ambientalisti internazionali, disegnano uno scenario inquietante e drammatico, di cui si tarda a prendere coscienza sia nel mondo occidentale, restio a mutare il suo irresponsabile stile di vita, sia in altre aree del mondo: i paesi asiatici in tumultuoso sviluppo, infatti, pretendono di replicare le esperienze europea e americana, moltiplicando così i fattori del collasso ecologico; mentre quelli più poveri aspirano giustamente a condividere almeno in parte quel benessere che finora è stato loro negato. Senza contare che anche nell’opulento Occidente permangono (anzi tendono ad allargarsi) sacche intollerabili di povertà ed esclusione.
Se dunque da più parti e con argomenti sempre più stringenti, di fronte alla grave emergenza ecologica verso cui l’umanità si sta dirigendo, si propone una prospettiva di consapevole decrescita (più o meno “felice”), non si possono al tempo stesso dimenticare i bisogni tuttora insoddisfatti di tanta parte della società e del mondo. Contraddizioni la cui soluzione è indubbiamente molto difficile, ma che suggeriscono di imboccare con decisione la via della ricerca di fonti energetiche pulite e rinnovabili; dell’adozione di modi di vivere, produrre e consumare meno dispendiosi e più sobri, ma anche socialmente più equi (perché agli sprechi dei ceti sociali più elevati corrispondono i sacrifici forzosi a cui è costretta un’ampia fetta di popolazione); di una politica economica che metta apertamente in discussione la proprietà privata delle risorse naturali, che dovrebbero essere “beni comuni” inalienabili e autogestiti. La via, insomma, di una decrescita socialmente sostenibile coordinata a livello municipale, regionale, nazionale e internazionale, accompagnata da una decisa redistribuzione del reddito e dall’aumento degli investimenti per la sanità, l’istruzione, la cultura, la tutela dell’ambiente e più in generale tutto ciò che è materialmente e spiritualmente necessario alla comunità.
La tematica berlingueriana dell’austerità, a suo tempo incompresa e perfino derisa, riemerge dunque con sorprendente attualità e con un’urgenza ben più pressante, insieme all’esigenza di razionalizzare e redistribuire le risorse disponibili. Consapevole di ciò, il radicalsocialismo pone la questione ecologica al centro del suo impegno politico, senza mai disgiungerla da quella sociale; sollecita la più vasta mobilitazione della società civile; incoraggia e sostiene ogni iniziativa pubblica e personale volta alla riduzione degli sprechi, dei rifiuti e dei fattori inquinanti, ed in generale all’adozione di abitudini e comportamenti più sani, più avveduti, più responsabili. In base appunto a quel “principio di responsabilità” formulato dal filosofo tedesco Hans Jonas, che si può sintetizzare nella frase: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza delle generazioni future». Un nuovo imperativo categorico che va rivolto sia all’uomo comune (nella doppia veste di produttore e di consumatore), sia allo scienziato: la cui responsabilità morale non dev’essere dimenticata nel momento in cui si difende giustamente la libertà di ricerca e sperimentazione. Ben sapendo che la ricerca scientifica resta uno strumento indispensabile per affrontare e risolvere quei problemi determinati non tanto dalla scienza e dalla tecnologia come tali, quanto soprattutto dal loro uso perverso ad opera del capitale; e che una vera alternativa ecologista non è possibile senza una critica serrata al capitalismo e alla logica “innaturale” del massimo profitto a qualunque costo.
9. Maturati solo in parte nell’alveo della tradizione socialista, il pacifismo e la nonviolenza sono anch’essi parte integrante del codice genetico del radicalsocialismo. Noi che siamo tenacemente legati all’imperitura memoria della Resistenza antifascista, come nuovo risorgimento e autentico atto di nascita dell’Italia democratica e repubblicana, affermiamo oggi che neppure il fine più nobile può giustificare l’uso della violenza e delle armi; che debbono essere piuttosto i mezzi cui si fa ricorso a giustificare la bontà del fine; che soltanto la pratica della nonviolenza e della pace può far avanzare realmente la causa degli oppressi, con quella dirompente forza morale dimostrata dai luminosi esempi di Gandhi e Martin Luther King ed anche col carattere radicale che essa ha assunto perfino nel prezioso contributo del cattolico Aldo Capitini, collaboratore di Calogero al Manifesto Liberalsocialista e ideatore della Marcia per la Pace Perugia-Assisi.
Con la fine della guerra fredda, il crollo del blocco sovietico e il conseguente trionfo del capitalismo in Russia, nell’Est europeo ed anche in Cina (in quest’ultimo caso attraverso il micidiale connubio tra il nuovo sfruttamento imperialistico e l’oppressione politica e sociale garantita dal perdurante regime totalitario), è diventata sempre più palese la stretta correlazione esistente tra politiche economiche neoliberiste e strategie militari del capitale. I conflitti armati, che un tempo divampavano in paesi satelliti delle due ex superpotenze ora unite sotto la stessa ideologia, si spostano non a caso nel Medio Oriente, dove si concentrano le principali risorse energetiche dell’attuale modo di produzione globalizzato ed anche le più refrattarie e irriducibili forze pre-moderne di resistenza alla “civiltà occidentale”, che hanno dato origine alle varie forme di terrorismo e integralismo di matrice islamica.
Lo scontro tra questi due “mondi” e sistemi di pensiero, acuito dalla percezione della crisi immanente verso cui entrambi sono avviati, ha condotto a un duplice, speculare fanatismo: da un lato la rinnovata arroganza dell’imperialismo americano per cui la guerra, da extrema ratio che era, è diventata preventiva; dall’altro la riproposizione in chiave terroristica della coranica “guerra santa”. Strumentalizzando in tal modo la religiosità e l’esasperazione di interi popoli, vittime allo stesso tempo di due opposte barbarie: la guerra di rapina degli “infedeli” occidentali e il cieco terrore di marca “talebana”.
Di fronte a questa nuova e drammatica fase storica, il categorico sottrarsi alle logiche della guerra, del dominio, dei fondamentalismi di ogni specie, del razzismo ammantato di false istanze “civilizzatrici” diviene un preciso e inderogabile dovere morale, sostenuto peraltro da elementari considerazioni di natura politica e giuridica e dal rispetto delle più solenni dichiarazioni internazionali in difesa dei diritti universali degli uomini e dei popoli.
Per questo, in Italia, il radicalsocialismo si batte affinché sia messo in atto il netto e inequivocabile principio del “ripudio” della guerra sancito dall’articolo 11 della Costituzione repubblicana: una disposizione precettiva vincolante, nella quale i costituenti hanno espresso il rifiuto di ogni forma di imperialismo e bellicismo, opponendo al nazionalismo fascista quel pacifismo che accomuna le tradizioni dell’universalismo cristiano, dell’internazionalismo socialista e del federalismo laico e democratico (queste ultime esemplarmente riassunte da Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene). Oggi è più che mai necessario rilanciare la spinta ideale autentica di quell’articolo 11, sepolta dalla serie di missioni di guerra a cui l’Italia è stata trascinata in questi anni; e ciò è possibile mediante la tassativa esclusione di ogni intervento armato che non sia limitato alla difesa dei confini nazionali.
10. Proprio il pacifista Capitini fu protagonista di coraggiosi esperimenti di democrazia diretta “dal basso”, volti a sostanziare l’assetto democratico sancito formalmente dalla Costituzione ma sottovalutati ed osteggiati da quella “partitocrazia” i cui macroscopici difetti egli aveva intuito e denunciato già negli anni Cinquanta.
La democrazia radicale, nella prospettiva di una progressiva autogestione di ogni ambito della vita sociale, è una stella polare del radicalsocialismo. Che pertanto è coerentemente federalista, secondo l’appassionato insegnamento di Carlo Cattaneo («Il federalismo è la sola forma di unità che sia possibile con la libertà, con la spontaneità, con la natura») e di numerosi maestri del pensiero libertario internazionale: «Chi dice libertà dice federazione o non dice nulla. Chi dice socialismo dice federazione o non dice ancora nulla», esclamava l’anarco-socialista Proudhon, assertore di un federalismo “integrale” – e noi aggiungiamo: cooperativo e solidale – che non si limiti alla sfera politico-istituzionale, ma coinvolga anche gli ambiti dell’economia e della società civile, democratizzandoli di conseguenza.
Sottraendoci allo sterile aut-aut tra stato e mercato (il primo “privatizzato” dai potentati industriali e finanziari, il secondo “nazionalizzato” dalla casta politico-affaristica) valorizziamo tutte le opportunità che può offrire la società civile, dando vita a forme originali e creative di cooperazione autentica, impresa etica, economia sociale, associazionismo no-profit, consumo solidale, autogestione delle proprie condizioni di vita e di lavoro, scambi gratuiti di beni e servizi a cominciare da quella risorsa preziosa e strategica della vita sociale che è il tempo.
Noi vogliamo che i beni economici essenziali restino o diventino pubblici e comuni (a partire dalla lotta emblematica contro la privatizzazione dell’acqua), ma non crediamo affatto che “pubblico” sia sinonimo di “statale”. Rifiutiamo anzi la burocrazia centralistica ed elefantiaca che connota numerose esperienze socialdemocratiche, così come lo statalismo assistenzialista del vecchio regime democristiano in Italia. Se il problema consistesse solo nel “dosare” opportunamente stato e mercato, potremmo limitarci a ribadire la splendida sintesi di Calamandrei: «Lo stato è obbligato a non intervenire per salvaguardare la libertà dei cittadini dall’oppressione politica; ma è obbligato a intervenire per salvaguardare la libertà dei cittadini dall’oppressione economica». Però questo non basta, almeno in un Paese come il nostro nel quale la tanto sbandierata (a destra come a sinistra) alternativa tra “pubblico” e “privato” consiste nella scelta tra due oligarchie “feudali”, allo stesso modo illiberali e inefficienti e per di più tra loro colluse attraverso molteplici intrecci di potere, come dimostra in modo grottesco la questione del conflitto di interessi legato alla persona di Silvio Berlusconi, ma anche il trattamento storicamente privilegiato di cui ha potuto godere la Fiat da parte della politica tutta, i vorticosi scambi di poltrone tra manager “pubblici” e “privati” o le sempre risorgenti velleità politiche di imprenditori che sono tra i primi responsabili dell’arretratezza dell’economia italiana, abituati a “rischiare” col denaro pubblico, a socializzare le perdite e a privatizzare i profitti (che riescono chissà come ad intascarsi, pur di fronte a indebitamenti spaventosi).
Come non temeva di affermare il liberale Calogero, spiazzando presumibilmente parecchi sedicenti comunisti di oggi, «in tutti i casi in cui l’autocontrollo della concorrenza viene a realizzarsi sempre meno, è necessario che subentri il controllo della comunità». Ma il controllo democratico della comunità dovrebbe subentrare anche alla “privatizzazione” dello stato da parte delle lobbies politico-affaristiche che si sono impadronite delle istituzioni. Il connubio perverso di mafie, famiglie, potentati economici e finanziari, monopoli, “santuari” e “poteri forti” (privati, statali e persino clericali) – così tipico dell’asfittico capitalismo nostrano – è da colpire con riforme radicali: un’autentica “rivoluzione liberale” in grado di aprire e liberalizzare sul serio il mercato e di democratizzare in profondità il settore pubblico, rendendo sempre più trasparenti e decentrati gli organi amministrativi e gestionali; un chiaro, completo, esemplare rinnovamento delle istituzioni politiche del Paese, ormai rifiutate da tanti cittadini come un corpo estraneo ed ostile.
11. Premesso che l’impegno radicalsocialista per il bene comune è l’esatto contrario del qualunquismo e dell’antipolitica, condividiamo e ci facciamo interpreti della rivolta morale che si sprigiona dalla parte sana e onesta della società civile del nostro Paese. L’alternativa democratica che sosteniamo ci pone in naturale sintonia con quei comitati, associazioni e movimenti spontanei che insorgono contro la corruzione e gli abusi di potere della “casta” dominante, in nome del bisogno profondamente sentito e condiviso di un’etica della giustizia, delle “mani pulite”, della trasparenza, della politica come servizio reso alla comunità, del ripristino della legalità ad ogni livello. E tuttavia, a fianco o anche all’interno di questi movimenti di massa, noi radicalsocialisti mettiamo immediatamente sul tappeto l’esigenza di andare oltre il semplice rifiuto generico dell’esistente o della sola “classe politica”; ci opponiamo all’indistinta criminalizzazione dei “partiti”; non nascondiamo né siamo disposti ad “annacquare” il nostro essere profondamente di sinistra sul piano dei valori; lavoriamo per creare le condizioni concrete – politiche e morali – di una nuova democrazia partecipata fondata sull’autogoverno dei cittadini, sulla diffusa partecipazione popolare alla vita politica, sulla centralità della questione sociale a partire dal lavoro (di cui critichiamo la crescente precarietà e subordinazione), sul diritto all’assistenza sanitaria pubblica, efficiente e gratuita, sulla strenua e risoluta difesa dell’ambiente naturale, sulla più ampia libertà dei mezzi di comunicazione (realmente a disposizione di ciascuno), sulla garanzia della pace, della salute e della sicurezza per tutti i cittadini, sull’affermazione della giustizia ad ogni livello, sulla completa laicità dello stato e la piena garanzia dei diritti individuali, compresi quelli dei cittadini e dei lavoratori immigrati.
Una comunità libera, giusta e solidale: ecco in sintesi la società che noi vogliamo. Terzo e fondamentale principio della rivoluzione francese, a volte trascurato dalla politica ed altre volte banalizzato o confinato in una dimensione privata e marginale, la solidarietà rappresenta la forza vivificante, il naturale sostrato dell’etica laica di chi si batte per la libertà e la giustizia, animato dal bisogno di onestà e verità – come invocava Felice Cavallotti – e in ultima analisi da quell’amore per gli esseri umani, ed anzi per tutti gli esseri viventi, di cui hanno dato prova i tanti maestri a cui ci ispiriamo, dai liberali progressisti Gobetti, Mill, Russell, Dewey e Rawls ai marxisti critici come Gramsci, Rosa Luxemburg, Fromm, Lukacs, Korsch, Marcuse e Adorno; dall’esistenzialista Sartre al pacifista Capitini; dal socialista “del sentimento” Edmondo De Amicis ai più “scientifici” e austeri Rosselli, Matteotti, Basso, Malagugini e Lombardi; dagli eroi risorgimentali Cattaneo, Ferrari e Pisacane agli azionisti Parri, Calamandrei, Bobbio e Foa; dai radicali Cavallotti, Nathan ed Ernesto Rossi agli anarchici Caffi, Proudhon e Chomsky; dagli umanissimi (e amatissimi) Pertini e Berlinguer fino alle icone universali della nonviolenza e del rifiuto del razzismo e dell’ingiustizia: il “mahatma” Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela.
12. Il radicalsocialismo è dunque un’idea nuova ma dalle radici antiche e profonde. La cui essenza squisitamente libertaria rappresenta la più netta antitesi e negazione del fascismo, del totalitarismo e di ogni forma di “pensiero unico”, così come del fondamentalismo religioso, dell’intolleranza, del razzismo e della violenza. Che nel grande fine della libertà eguale raccoglie e intreccia le migliori esperienze e aspirazioni tanto del liberalismo quanto del socialismo, superandone i limiti storici ed il carattere unilaterale. Ma che respinge ogni possibile sintesi “centrista” o (falsamente) “riformista” di questa dialettica, per collocarsi radicalmente a sinistra; con l’obiettivo di rivitalizzare, nella teoria e nella prassi conseguente, le idee della sinistra in senso socialista e libertario, nonché di favorire su questa base il suo auspicabile processo di rifondazione unitaria.