John Dewey

John Dewey

di GIANCARLO IACCHINI

«Una società il cui fine non sia la produzione di beni, ma di esseri umani liberi, reciprocamente associati in condizioni di uguaglianza». Questo, in una frase, il sogno politico e pedagogico (anzi l’auspicio razionale) di colui che è stato senza alcun dubbio il più grande filosofo statunitense e – secondo molte autorevoli opinioni, tra cui quelle di Bertrand Russell e Noam Chomsky – uno dei maggiori pensatori e pedagogisti di tutto il Novecento: John Dewey (1859-1952).

Ma lasciamo che sia il libertario Chomsky, con la sua ben nota chiarezza concettuale ed espressiva, ad introdurre il discorso su colui che ha sempre definito il suo primo e più grande maestro: «Devo confessare il mio speciale interesse per John Dewey, il cui pensiero ha esercitato una forte influenza su di me. Col suo liberalismo progressista, con la sua impostazione politica libertaria di sinistra, Dewey cercò di aprire la strada verso una società più giusta e libera. Questa sinistra indipendente, di cui faceva parte insieme a Russell, ha radici profonde nel liberalismo classico. Il suo obiettivo, per dirla con le parole di Russell, era quello di “dare un senso al valore delle cose diverso da quello del dominio, contribuire a creare cittadini consapevoli di una comunità libera, incoraggiare la combinazione di cittadinanza e libertà, creatività individuale, a partire dall’educazione: il che significa che consideriamo un bambino allo stesso modo in cui un giardiniere guarda ad un arbusto, come qualcosa dotato di una natura intrinseca che si svilupperà in maniera ammirevole data la giusta combinazione di terreno, aria e luce”. Di fatto, benché discordassero su molte cose, Dewey e Russell sono stati secondo me i due maggiori pensatori del ventesimo secolo. Erano d’accordo su una concezione umanistica della società, e sull’idea che l’educazione non va vista come l’atto di riempire un vaso, ma piuttosto di aiutare un seme a germogliare e il fiore a crescere a modo suo. Dewey e Russell condividevano altresì la convinzione che queste idee dell’Illuminismo e del liberalismo avessero un carattere rivoluzionario. E vale la pena di sottolineare quanto netto e forte sia lo scontro di valori tra la concezione umanistica, che corre dall’Illuminismo fino a figure capitali del Novecento come Russell e Dewey, e le dottrine predominanti oggi. Dewey comprese chiaramente che “la politica è l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici”, e fintanto che ciò rimanga vero, “un’attenuazione dell’ombra non cambierà la sostanza”. Intendendo che le “riforme” saranno di utilità limitata. La democrazia richiede che la causa dell’ombra sia rimossa non solo per il suo dominio sull’arena politica, ma perché le stesse istituzioni del potere privato incrinano la democrazia e la libertà. Dewey era molto esplicito riguardo a questo potere antidemocratico: “Il potere oggi risiede nel controllo dei mezzi di produzione, scambio, pubblicità, trasporto e comunicazione. Chiunque li possieda controlla e domina la vita del paese, anche se permangono forme di democrazia. È il sistema del profitto privato che controlla le banche, la terra e l’industria, rafforzato dal dominio sulla stampa e gli altri mezzi di pubblicità e propaganda: e finché questo sistema di potere, di coercizione e di controllo non sarà rovesciato non potremo parlare seriamente di democrazia e libertà”. In una società davvero libera e democratica, sosteneva Dewey, i lavoratori dovrebbero essere padroni del loro destino, non strumenti affittati dai datori di lavoro. Perciò l’industria, le aziende devono passare “da un ordine feudale ad uno democratico”, basato sul controllo da parte dei lavoratori e sulla loro libera associazione, classici ideali anarchici che affondano le loro radici nel liberalismo classico e nell’Illuminismo. E l’istruzione, secondo lui, doveva essere uno dei mezzi per mettere in discussione questa mostruosità assolutista. Oggi, dopo molti altri decenni di assalto del potere privato, questi valori libertari fondamentali suonano esotici ed estremi, forse anche… antiamericani, per usare uno dei termini del pensiero totalitario odierno in Occidente».

Dopo questa lunga ma illuminante citazione introduttiva, proviamo a riassumere la filosofia di Dewey. A differenza del connazionale John Rawls, il cui liberalsocialismo si richiama al “dover essere” di Kant, Dewey propone una geniale fusione tra Hegel e l’empirismo anglosassone. Quest’ultimo gli appare troppo “povero” e limitato, ed allora serve appunto la dialettica per ricostruire la complessità del processo conoscitivo: che ben lungi dal potersi ridurre ad una “mente” che attraverso i sensi “rispecchia” semplicemente (e passivamente) le cose del mondo esterno si allarga, nella visione organica e “globalistica” di Dewey, fino ad abbracciare tutte le facoltà umane: interesse, volontà, sentimento e quindi azione, intervento attivo sul mondo.

L’empirismo viene insomma integrato dalla concezione hegeliana dell’“intero” e da una buona dose di “pragmatismo” tipicamente americano, secondo il quale solo l’esito reale verifica o falsifica una teoria. La conoscenza (astratta) diventa vita (concreta): e la vita è un processo nel quale si ristabilisce in ogni momento quell’equilibrio con l’ambiente che garantisce la sopravvivenza e il “benessere” dell’uomo, e che viene continuamente spezzato dai “problemi” dell’esistenza. Così l’individuo cerca di adattarsi all’ambiente, e contemporaneamente (o alternativamente) di adattare l’ambiente a se stesso. Un rapporto complesso, contraddittorio e sofferto, che è sia teorico che pratico e comprende oltre ai sensi e all’intelletto anche i bisogni, i desideri, gli istinti, gli errori, i pregiudizi, le speranze, le paure e tutto l’insieme delle emozioni umane; una relazione in cui mente e corpo sono intrecciati in maniera inestricabile, dove “cadono” – mostrando la loro unilaterale fallacia – sia l’idealismo che il realismo, sia il razionalismo che l’empirismo, sia lo spiritualismo che il materialismo (tra “struttura” e “sovrastruttura” la dipendenza è reciproca; anzi, vi è una piena compenetrazione) e tutti i “dualismi” della filosofia vengono dissolti dal concreto processo dello sviluppo reale.

L’esistenza è un continuo “risolvere problemi” (problem solving), e l’esperienza diventa coscienza quando ci si imbatte in un ostacolo da superare. La conoscenza è lo “strumento” più raffinato per risolvere problemi e raggiungere o ristabilire l’armonia, ovvero un punto di equilibrio che resta pur sempre precario: ecco perché Dewey definisce strumentalismo la propria filosofia. E quando si parla di ambiente, ovviamente, si comprendono nel rapporto con esso lo scambio (transazione) con la natura e l’interazione con gli altri esseri umani: un processo articolato e complesso il cui esito è sempre problematico, mai garantito in partenza. È dunque infondato ogni ottimismo ontologico; così come, peraltro, qualsiasi pessimismo fatalistico. Perciò Dewey si allontana da Hegel: se la vita è lotta e contraddizione, non c’è una sintesi “a priori”; la corrispondenza tra ideale e reale non è affatto assicurata. E non può mai essere una coincidenza né un’uguaglianza: perché l’ideale serve proprio a correggere e migliorare il reale, grazie alla guida dell’intelligenza: ecco perché è il “migliorismo” l’unica concezione attiva e sensata.

Questo vale anche nei riguardi del marxismo: la “lotta di classe” non è una “legge” ma un fatto empirico, che richiede un’azione libera e consapevole per affrontare il “problema”. «Nessuno nega che ci siano interessi in conflitto, altrimenti non ci sarebbero problemi sociali. La questione è però sapere in che modo le richieste in conflitto possono essere regolate nel senso del massimo contributo possibile agli interessi di tutti. Il metodo della democrazia – nella misura in cui esso è quello dell’intelligenza organizzata – è di stanare questi conflitti, discuterli e giudicarli alla luce di interessi più generali di quelli rappresentati dall’uno o dall’altro di essi separatamente. Ad esempio, c’è indubbiamente un contrasto di interessi tra il capitalismo finanziario, che controlla i mezzi di produzione e il cui profitto è adoperato per mantenere una relativa miseria, e gli operai, i disoccupati e i consumatori; ma ciò che provoca discordia violenta è il rifiuto di portare il conflitto alla luce dell’intelligenza, dove gli interessi contrastanti possono essere giudicati in favore dell’interesse della grande maggioranza».

Se i contrasti e le contraddizioni sono fatti, scomodi ma impossibili da mascherare, invece l’assioma di tante costituzioni democratiche – “tutti gli uomini nascono liberi e uguali” – purtroppo non è un fatto ma un dover essere, mentre l’“essere” dimostrerebbe l’esatto contrario. «Tuttavia proprio il fatto della disuguaglianza naturale e psicologica  è una ragione in più per volere e stabilire l’eguaglianza delle possibilità, affinché le differenze non diventino un mezzo per opprimere i meno dotati». La soluzione dei contrasti, e cioè la realizzazione delle idee che rappresentino soluzioni ai problemi constatati dall’esperienza, può solo essere il frutto dell’impegno e della fatica degli individui associati; laddove l’associazione riesce meglio della divisione e dell’isolamento a risolvere le difficoltà comuni.

L’evoluzione (qui Dewey elabora un’originale interpretazione progressista e volontaristica della teoria di Darwin) si muove alla continua ricerca di una migliore e più proficua organizzazione individuale e sociale. Per trovare le soluzioni più efficaci servono il confronto e il dialogo tra le persone. Ecco perché una società libera e democratica è già una “mezza soluzione” ai problemi dell’esistenza, dal momento che permette di affrontarli nel modo migliore. La cultura, la filosofia e con esse l’educazione debbono garantire in primo luogo la formazione di persone libere e responsabili, senza proporsi alcun intento consolatorio (le “magnifiche sorti e progressive”!) ma nemmeno scettico nei confronti dell’avvenire.

A partire dalla scuola (Dewey fonderà le “scuole attive”, basate su una concezione pratica e operativa del sapere, sull’alternanza studio-lavoro e sulla piena partecipazione dello studente al processo educativo) gli individui dovranno abituarsi a guardare in faccia l’esperienza umana per quello che è, con la sua ineliminabile carica di precarietà e imperfezione. Anche la democrazia è imperfetta, ma è l’unico sistema che consente di migliorare, progredire, cambiare e, se si sbaglia, di “tornare indietro” e rettificare (considerazioni simili a quelle che Karl Popper porrà alla base della sua “open society”).  «La filosofia che rinuncia al suo sterile monopolio di rapporti con la realtà ultima e assoluta – scrive Dewey – troverà un fattore di compensazione nel gettar luce sulle forze morali che muovono il genere umano e nel contribuire alle aspirazioni dell’uomo a raggiungere una felicità sempre più ordinata e intelligente».

Proprio all’intelligenza guardava Dewey – soprattutto nei bui anni Trenta – come alla più preziosa risorsa dell’umanità: una risorsa da coltivare e potenziare, contro tutti gli irrazionalismi culturali e politici. Valorizzando il metodo del dialogo e della critica, che deve prevalere su ogni gerarchia sociale, la democrazia ed anche l’educazione “insegnano a vivere”, guidando l’uomo nel labirinto della sua problematica esistenza, cercando continue soluzioni per vecchi e nuovi problemi. Ciò implica una piena libertà di espressione e la progressiva eliminazione di qualsiasi vincolo di dipendenza tra uomini, che debbono rispettarsi e riconoscersi eguali nei diritti: non perché l’eguaglianza sia un “fatto” naturale, come si diceva poc’anzi, ma perché risulta pragmaticamente la condizione più auspicabile per cooperare alla soluzione dei problemi.

Se nessuno ha accesso a fonti privilegiate di verità, se ogni individuo si trova in una situazione di relativa ignoranza, allora quella del confronto democratico è l’unica via per comprendere e correggere i nostri errori e far progredire le nostre “mezze verità”, nella scienza come nella vita quotidiana ed anche in politica. «Indagare e dubitare sono sinonimi. Noi indaghiamo quando dubitiamo; ed indaghiamo quando cerchiamo qualcosa che fornisca una risposta alla formulazione del nostro dubbio. Noi siamo dubbiosi perché la situazione è nella sua essenza dubbiosa. È un errore credere che la situazione sia dubbiosa solo in senso soggettivo. La nozione che nell’esistenza reale ogni cosa sia completamente determinata è stata posta in discussione dai progressi della stessa scienza fisica. Ma anche se ciò non fosse avvenuto, la completa determinazione non avrebbe potuto valere per le cose che costituiscono un ambienteInfatti la natura è un “ambiente” soltanto in quanto si trovi ad essere in interazione con un organismo, o io, o che altro nome si voglia usare».

La democrazia, per Dewey, è «qualcosa di più di una forma di governo; è prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza comunicativa e congiunta». Una comunità di persone libere e uguali che mirano ad esprimere e potenziare le rispettive individualità. Anche le diversità vanno ovviamente tutelate, nell’ambito della libertà, ma la democrazia si inaridisce se le normali differenze tra i cittadini si cristallizzano in forti diseguaglianze sociali, le quali piuttosto devono essere combattute e limitate, poiché una democrazia autentica si basa sulla solidarietà e non sul privilegio. Anche l’autoritarismo dev’essere rifiutato, perché è il contrario dell’autonomia, del rispetto e della discussione critica e autocritica. La democrazia è la forma di vita sociale che nel suo carattere partecipativo, nella sua mobilità e nel suo dinamismo corrisponde esattamente alle caratteristiche del metodo sperimentale, su cui si fonda il progresso scientifico.

Come nessuna autorità civile o ecclesiastica può arrogarsi la pretesa di bloccare l’evoluzione della conoscenza umana, così nessuno stato dovrà impersonare e imporre un’ideologia e neppure un’etica. Il che non vuol dire dar ragione a… Machiavelli: in politica nessun fine (neppure il benessere della maggioranza) “giustifica i mezzi”. I “mezzi” devono giustificarsi da sé; e casomai essere loro stessi a “giustificare il fine”, mostrandone strada facendo la bontà e desiderabilità. Se per esempio si pensasse di fare una guerra per consolidare la pace, il mezzo allungherebbe un’ombra sulla liceità di “quel” fine. La democrazia «non è un capitale che ci fa vivere di rendita», ma una conquista quotidiana, che dev’essere rinnovata di generazione in generazione. La libertà  è la condizione migliore e più favorevole, anzi l’unica, per il progresso spirituale e materiale dell’uomo. Ma le libertà degli individui vanno armonizzate dalla comunità. Dunque né individualismo sfrenato, né pianificazione dall’alto: «La società democratica si pianifica da sé, liberando l’intelligenza attraverso la forma più vasta di interscambio cooperativo». L’intelligenza e la razionalità umana si manifestano nella socializzazione. È la polis l’ambiente naturale dell’uomo: ogni elogio dell’individuo solitario non è che una… “robinsonata”, come la chiamava Marx. Solo nella collaborazione reciproca, nella libera associazione, gli esseri umani possono trovare risposte efficaci ai loro problemi.

La guerra certo è un fatto ed anche una possibilità, ma non un istinto “naturale”. Sono le condizioni sociali che esasperano i conflitti e impongono pseudo-soluzioni irrazionali e antidemocratiche (nazionalismo, militarismo, razzismo, imperialismo, ecc.) che, nell’interesse della difesa del potere e dei privilegi di alcuni, convogliano gli impulsi umani verso la violenza e lo scontro armato.

Il capitalismo non è un sistema immutabile, da difendere o respingere in blocco. La critica ad esso, per essere davvero “scientifica”, dev’essere concreta e specifica; e servire per esempio a combattere – nella prospettiva di un autentico umanesimo sociale – la miseria delle masse popolari, l’irrazionalità della concorrenza più cieca ed egoistica, la logica del profitto a qualunque costo (si è già detto dei “mezzi” e del “fine”), le prepotenze dei monopoli, la brutale alienazione indotta dal “taylorismo”, organizzazione tecnica del lavoro che pretende di trasformare gli operai in “gorilla ammaestrati” eliminando quelle pause che, per la catena di montaggio e la produzione automatizzata, sono semplicemente “tempi morti”, traducibili in costi e in meno profitti. Questo è il volto disumano del capitalismo, perché mortifica la personalità del lavoratore, svilisce la sua intelligenza e umanità, ne inibisce la crescita culturale costringendolo ad un lavoro “senza pensiero”, contrapposto al “pensiero senza lavoro” dei privilegiati e dei “contemplativi”. Ad esempio la filosofia di Bergson, che separa la vita di routine dallo “slancio vitale” considerato come esperienza eccezionale di pochi, è per Dewey un manifesto reazionario volto più o meno consapevolmente alla conservazione dei privilegi.

Condizione fondamentale della democrazia  è l’apertura al cambiamento politico ed economico: quando le istituzioni invecchiano e si sclerotizzano vengono soffocate le spinte evolutive, e con esse la vitalità degli organismi sociali (e questo, come la storia ampiamente insegna, vale anche per i partiti). La crisi dell’Occidente non dipende né da un inesistente determinismo storico, né dall’eccesso di razionalità denunciato da Nietzsche. Ce n’è anzi troppo poca, di razionalità e ragionevolezza! C’è un grave deficit di controllo e di “pianificazione” democratica da parte degli stati; un’incapacità a governare le tendenze spontanee dell’economia e gli egoismi tutt’altro che spontanei che portano alla crisi (come quella rovinosa del ’29). Altro che Zusammenbruchstheorie, la teoria del crollo fatale e inevitabile del capitalismo profetizzato dal marxismo più deterministico: le cause della crisi e del suo avvitarsi e allargarsi a macchia d’olio vanno cercate nella mancanza delle soluzioni più adeguate; è l’intelligenza politica a difettare clamorosamente. Ecco allora che le riforme keynesiane, e il New Deal di Roosevelt che le mise in pratica per la prima volta, dovettero entusiasmare Dewey e apparire ai suoi occhi come una grande sfida illuministica e democratica, per governare i processi economici e “domare” il cavallo imbizzarrito e selvatico del “libero mercato”, abbandonando il fallimentare dogma del “lassez faire”. Ma sempre in nome della libertà. Una libertà… intelligente, appunto. «Quando abbiamo usato il nostro pensiero al massimo ed abbiamo gettato sulla mobile e poco equilibrata bilancia delle cose la nostra debole forza, sappiamo che, se anche l’universo ci distrugge, possiamo aver fiducia, perché il nostro desiderio fa tutt’uno con quello che c’è di buono nell’esistenza. Chiedere più di questo è puerile, chiedere meno è una viltà».

Post scriptum: il 31 dicembre 1929 Papa Pio XI, con l’enciclica Divini Illius Magistri (dedicata all’“educazione cristiana della gioventù”), pur senza citare esplicitamente John Dewey condanna con sprezzante durezza «i perniciosissimi errori che troppo largamente vanno diffondendosi con immenso danno della gioventù», commessi da «quei maestri delle nuove scuole e teorie pedagogiche» i quali, con «metodi erronei e perniciosi», inoculano nella società cristiana «il veleno dottrinale e morale» di un’educazione laica. «Costoro, appellandosi ad una pretesa autonomia e libertà del fanciullo, miseramente si illudono nella pretesa di liberare, come essi dicono, il giovane, mentre lo rendono piuttosto schiavo del suo cieco orgoglio e delle sue disordinate passioni, poiché queste, per logica conseguenza di quei falsi sistemi, vengono ad essere giustificate quali legittime esigenze della natura sedicente autonoma». La Chiesa ribadisce che «non può darsi adeguata e perfetta educazione all’infuori dell’educazione cristiana», e pertanto considera «massimamente pericoloso quel naturalismo che ai nostri tempi invade il campo dell’educazione», diffondendo il terribile virus del “relativismo morale”: «Onde ai nostri giorni si dà il caso assai strano di educatori e filosofi che si affannano alla ricerca di un codice morale universale dell’educazione, quasi non esistesse né il Decalogo né la legge evangelica». Il Pontefice dichiara «falso ogni naturalismo pedagogico, che in qualsiasi modo escluda o menomi la formazione soprannaturale cristiana nell’educazione della gioventù»; lo bolla come «empio, estremamente pernicioso alla retta formazione dei giovani e sicuramente rovinoso per la stessa società civile e il vero benessere dell’umana convivenza», sia esso «infetto dal liberalismo sia dalle estreme teorie socialiste le quali formano (o per meglio dire deformano e depravano) i giovani all’irreligiosità e all’odio in associazioni e scuole senza Dio, rinnovando con ciò una vera e più orrenda strage degli innocenti. Similmente erroneo e pernicioso per l’educazione cristiana è il così detto metodo della “coeducazione” fondato anch’esso sul naturalismo negatore del peccato originale, oltre che su una deplorevole confusione di idee che scambia la legittima convivenza umana con la promiscuità e l’eguaglianza livellatrice». Amen (e no comment).

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