di GIANCARLO IACCHINI ♦
Ammettiamolo: è dalla nascita di MRS, ormai più di 15 anni fa, che sfogliamo la margherita per decidere se inserire tra i nostri “maestri ideali” anche Ernesto Rossi (1897-1967), antifascista, anticlericale, antimilitarista, antinazionalista, federalista europeo, azionista e poi radicale ma anche, come in tanti hanno rimarcato, «molto liberale e poco socialista», al punto di vedersi attribuito un “liberismo” che in effetti troncherebbe subito il discorso. Eppure… Dovremmo anche noi essere condizionati da quell’ideologismo che vogliamo combattere? Al di là di definizioni e incasellamenti che lui stesso respingeva con forza e piglio assai anarchico, restando sempre un “cane sciolto” dovunque abbia militato (e «un cane in chiesa», come ripeteva spesso, nel neonato Partito radicale), che cosa pensava e desiderava davvero Ernesto Rossi? Uno Stato assente in economia, se non come cane da guardia di quelli che definiva “i padroni del vapore”? Istituzioni indifferenti al destino degli “svantaggiati” in un libero mercato dalle magnifiche sorti e progressive? Niente di tutto questo, anzi il contrario. Si possono discutere le ricette, ma non contestare la bontà del piatto che si sta cucinando. O meglio: si può sostenere (legittimamente) che non quegli ingredienti non verrà fuori niente di commestibile, ma non dubitare delle intenzioni, del fine e dell’obbiettivo che si intende perseguire! E quale sarebbe, dunque, questo obbiettivo politico e ideale?
Al di là di tante altre cose, dicevamo, che non abbiamo la possibilità di approfondire in questa sede ma che sono indubbiamente fondamentali nella biografia politica di Rossi, come il Manifesto di Ventotene per un’Europa unita e federale (scritto con Altiero Spinelli nel 1941 mentre erano al confino, dopo anni e anni di carcere duro per scontare una condanna ventennale simile a quella che colpì Antonio Gramsci, dopo il plateale arresto a scuola mentre faceva lezione) oppure l’intransigente battaglia contro le ingerenze della Chiesa nella vita dello Stato, dai Patti Lateranensi ai mille favoritismi accordati dai governi democristiani al Vaticano non solo per le sue attività religiose, culturali e solidaristiche ma anche purtroppo – come Rossi documentò con meticolosa precisione – per i traffici economici e le speculazioni finanziarie delle banche come lo Ior: attività sconosciute e quasi incredibili agli occhi della maggior parte dei fedeli, ma che negli anni del boom economico stavano diventando sempre più complesse e più… invisibili (anche al fisco italiano). Ciò che qui ci interessa è però il cuore della teoria politico-economica di Ernesto Rossi, per capire se possa essere annoverato o no tra i nostri maestri, alla luce delle finalità socialiste che MRS si propone. Per carità: il problema sussiste naturalmente per gli iscritti e i simpatizzanti dell’associazione (molto attenti ai riferimenti ideali e culturali), non certo per i tanti estimatori – anche non interessati alla politica (e spesso non di sinistra) – del collaboratore di prestigiose riviste come Non mollare di Gaetano Salvemini e dei fratelli Rosselli, Il mondo di Pannunzio o L’astrolabio di Ferruccio Parri; ma crediamo che conoscere meglio il nucleo del pensiero di Rossi possa giovare un po’ a tutti: socialisti o liberali che siano.
In una serie di interventi, articoli e libri come il celebre Abolire la miseria, dal titolo che è già un manifesto politico, Rossi espone la controversa ma interessante ricetta a cui accennavamo più sopra: 1) sì alla libera concorrenza, come mezzo utile a produrre ricchezza e ridurre prezzi e tariffe a beneficio dei consumatori (e dunque di TUTTI i cittadini); 2) intervento necessario e continuo dello Stato per tutelare e difendere la concorrenza, evitando lo “spontaneo” formarsi di oligopoli e monopoli capaci di imporre i loro prezzi e dunque danneggiare la popolazione; 3) nel caso specifico della “prima repubblica” italiana, si tratta non più di difendere ma di ristabilire, ripristinare, riattivare una concorrenza degna di questo nome, smantellando quelle pachidermiche concentrazioni monopolistiche figlie non solo delle tendenze spontanee del mercato, ma di favoritismi e clientelismi politici paragonabili per modalità al modus operandi delle cosche mafiose (una battaglia per le “mani pulite” che precede di 30 anni la realtà di Tangentopoli e della rete di interessi e corruzione che i magistrati Falcone e Borsellino cercheranno invano di smantellare, pagando con la vita il loro titanico impegno); 4) costruire una solida rete di Welfare tale da garantire i “meno avvantaggiati” (per usare la formulazione piuttosto eufemistica del filosofo americano John Rawls) senza bisogno di tante elargizioni ed “elemosine” ad personam: secondo Rossi, infatti, tutti devono poter soddisfare i bisogni fondamentali come cibo, alloggio, istruzione e sanità, e in più godere dei servizi pubblici basilari, grazie a concrete garanzie offerte dallo Stato, senza bisogno di creare un elefantiaco apparato assistenziale, inevitabilmente preda di clientelismo e corruzione. Se insomma scuola e sanità fossero gratuite per tutti, con una rete di alloggi popolari di proprietà pubblica per chi non può acquistare una casa, con la garanzia di un reddito-base che non scoraggi la ricerca di un lavoro ma consenta appunto di “abolire la povertà”, allora avremmo uno “stato sociale” agile ma efficiente, senza sprechi, alimentato nelle sue risorse proprio da un settore privato lasciato libero di fiorire – pur sempre nel rispetto delle leggi che tutelano dallo sfruttamento gli uomini e la natura – e dunque di contribuire con una tassazione non opprimente ma certa al mantenimento dello Welfare a beneficio di tutti. Si tratta insomma di cancellare la miseria, non la ricchezza; di garantire quella redistribuzione essenziale che non comprometta la produzione del benessere: «Tutto il contrario di quel che fa lo Stato attuale, bravissimo a privatizzare i profitti e socializzare le perdite!».
A chi continua a parlare di un Rossi “liberista” e-quindi-di-destra dedichiamo questo passo inequivocabile, con l’invito a cercare “la sostanza” al di là delle parole: «Quello che i liberisti non capiscono è che anche la libera concorrenza richiede la pianificazione. Infatti nessuna persona di buon senso può pensare seriamente che dal caos degli impulsi individuali nasca spontaneamente un cosmo di ordine sociale. L’economia di mercato dà risultati ottimi o pessimi a seconda dell’ordinamento giuridico. Ad esempio occorre redistribuire costi e benefici dello sviluppo economico; ed i servizi pubblici vanno nazionalizzati, perché risultano troppo pericolosi in mano ai privati».
E più si intensificava la lotta “radicale” di Ernesto Rossi contro bigottismo e moralismo, più si accentuava l’impegno etico contro la corruzione e la concussione che hanno ormai contaminato sia la politica che l’economia. Del resto, se un sistema economico libero ma… marcio non potrebbe essere un vanto per i liberisti, così i socialisti non avrebbero niente da guadagnare da un intervento pubblico legato a filo doppio alla corruzione e alla sporcizia morale. Qui gli strali polemici di Rossi sono implacabili, al limite dell’insulto, ricordando un po’ il futuro exploit del Movimento 5 Stelle per gli stessi motivi e la stessa indignazione popolare contro il malaffare e la disonestà della classe politica, ma anche di quella imprenditoriale, che non fa un buon servizio a quello “spirito del capitalismo” che Max Weber riconduceva all’etica calvinista: «Io non ho mai contestato i capitalisti per quanto guadagnano, ma per quello che rubano», amava ricordare.
Il suo impegno era… kantiano. Ovvero lo sentiva come un imperativo categorico del tutto slegato dal successo in politica, visto che non si fidava neppure delle motivazioni moralizzatrici del “qualunquismo” populista, convinto com’era che anche “il popolo” fosse disposto a convivere con la corruzione qualora ne potesse trarre giovamento. Per questo non era il risultato elettorale la sua bussola, ma la propria coscienza morale: «Non ho bisogno di trovare nemmeno nei “fatti” la conferma delle mie convinzioni. Mi basta la voce della mia coscienza e il debole lume della mia ragione».
Diffidava delle ideologie, a cominciare da quella nazionalista, per lui fonte di tutti i mali. È in chiave internazionalistica e cosmopolitica, infatti, che va letto il suo impegno europeista: «La sovranità nazionale è la base del nazionalismo, dell’imperialismo e del militarismo che ne conseguono necessariamente». E diceva anche: «Con la mia insistenza per i diritti individuali di libertà sembro un individualista liberale più che un socialista; ma una volta garantiti i bisogni fondamentali, anche le masse possono diventare individui e godersi finalmente quelle “libertà liberali” che sono state troppo a lungo appannaggio di una élite di privilegiati». Trasformare le masse in liberi individui, il popolo in cittadini consapevoli: forse è questa, a pensarci bene, la vera… “rivoluzione sociale”.
P.S.: Perciò alla fine Ernesto Rossi, nel nostro pantheon ideale, può starci eccome! 😊