John Rawls

John Rawles

di GIANCARLO IACCHINI

Accanto ai grandi maestri italiani che hanno storicamente riempito di contenuti l’ideale di un socialismo autentico, fondato sui valori di giustizia e libertà, deve trovare posto l’americano che ha teorizzato la “forma a priori” dell’ideale libertario, egualitario e solidale tipico del liberalsocialismo. Il filosofo statunitense John Rawls, nato nel 1921 a Baltimora e scomparso vent’anni fa, nel 2002, può essere definito infatti il Kant della giustizia sociale, colui che ne ha delineato le condizioni “universali e necessarie”, individuandone la radice nella razionalità dell’uomo anziché nella “struttura economica e sociale” di stampo marxista.

Noi vorremmo tenere dialetticamente insieme, se possibile, le due diverse impostazioni, ma non possiamo dimenticare che fu lo stesso fondatore del socialismo moderno – il giovane Marx dei Manoscritti – a criticare con nettezza il “rozzo materialismo” speculare a quello borghese (il dio-salario contrapposto al dio-profitto, nel comune culto tutto capitalistico del dio-denaro) e a indicare la via della liberazione umana dal “mondo rovesciato” dell’alienazione, della mercificazione, della “reificazione”. Nella prospettiva di questo nuovo umanismo, ben venga allora il ritorno all’etica razionale e illuministica di Kant, autonoma sia dalla metafisica religiosa che dagli interessi economici e dai “valori” (più… borsistici che etici!) imposti dalla cultura dominante. Traducendo tutto questo in politica, nell’opera Una teoria della giustizia scritta nel 1971, Rawls (docente per lunghi anni alla prestigiosa università di Harvard) ha finito per costruire quella che Amartya Sen definisce «di gran lunga la più influente e importante teoria politica che sia stata presentata nel Novecento».

Come la verità in campo gnoseologico, in politica è la giustizia, secondo Rawls, «il primo requisito delle istituzioni sociali». Come una teoria scientifica dev’essere abbandonata o modificata se non risulta vera, così le leggi e le istituzioni devono essere abolite o riformate se sono ingiuste. Tra un benessere riservato ad alcuni (fossero anche i più), fondato però sull’ingiustizia ai danni di altri (fossero anche pochi), ed una giustizia “senza se e senza ma” che vada anche a discapito di un’iniqua ricchezza sociale, si deve sempre preferire la giustizia: «Ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia, su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri». Con ciò Rawls rompe definitivamente con il tradizionale utilitarismo della sociologia anglosassone. Anche se fosse il sacrificio di una minoranza a consentire il vantaggio della maggioranza, la società rimarrebbe ingiusta e quindi inaccettabile. In una società “giusta”, infatti, tutti gli individui hanno diritto ad «eguali libertà di cittadinanza». A giudizio di Rawls, l’eguaglianza nel godimento delle libertà fondamentali è un diritto assoluto, che non ammette deroghe o eccezioni: è la teoria della “libertà eguale”, la stessa formulata in Italia, con decenni di anticipo, dai padri del liberalsocialismo. Ma nuova e originale è la fondazione “razionale” che ne fornisce il filosofo statunitense.

Egli riprende la vecchia teoria del “contratto sociale”, questa volta non per giustificare la creazione di uno stato, ma per “vedere” quale società possa essere concepita di comune accordo da individui liberi, kantianamente concepiti come persone razionali e disinteressate. Si obietterà che nessuno può dirsi “disinteressato” nella concreta realtà “materiale” in cui è coinvolto: ma proprio per questo Rawls ricorre alla doppia finzione di un patto sociale da stipulare ipotizzando un’immaginaria condizione iniziale (“original position”) in cui nessuno conosca in anticipo quale posizione andrà a occupare nella società nascente. La scelta cioè avviene infatti sotto un immaginario “velo di ignoranza” (“veil of ignorance”) che mette tutti istantaneamente in una situazione di parità. Ad esempio il “possibile” ricco, temendo di non riuscire a diventarlo, non avrebbe nulla da obiettare su una tassazione progressiva dei redditi e dei patrimoni, mentre il potenziale povero, pur sperando che la malasorte non tocchi a lui, accetterebbe di buon grado un sostanzioso welfare protettivo; e confidando – nel caso sfortunato – di abbandonare molto in fretta quella condizione, non si sognerebbe di negare la mobilità sociale e la possibilità per tutti di “fare fortuna”, contando sulle stesse opportunità. Ognuno cioè desidererebbe la massima libertà economica, ma allo stesso tempo vorrebbe cautelarsi di fronte al rischio di finire tra gli “svantaggiati”.

Su questa base di sostanziale equità si può raggiungere l’accordo necessario a sottoscrivere il patto sociale, individuando alcuni princìpi fondamentali di giustizia che corrispondono a quelli che Kant chiamava “imperativi categorici” del dovere morale: «È stato Kant ad affermare  che una persona agisce autonomamente quando i princìpi della sua azione sono scelti da lui come l’espressione più adeguata possibile della sua natura di essere razionale libero ed eguale. I princìpi in base ai quali agisce non vanno adottati a causa della sua posizione sociale o delle sue doti naturali, o in funzione del particolare tipo di società in cui vive, o di ciò che gli capita di volere. Agire in base a questi princìpi significherebbe agire in modo eteronomo. Il velo di ignoranza priva le persone nella posizione originaria delle conoscenze che le metterebbero in grado di scegliere princìpi eteronomi. Le parti giungono insieme alla loro scelta, in quanto persone razionali libere ed eguali, conoscendo solo quelle circostanze che fanno sorgere il bisogno di princìpi di giustizia. Ed  agire a partire da princìpi di giustizia significa agire in base ad imperativi categorici, nel senso che essi si applicano al nostro caso indipendentemente dai nostri scopi particolari».

Ed eccoci allora ai principi basilari della “società giusta”, che si possono riassumere nei primi tre articoli della nostra ipotetica costituzione ideale:

1)      Ogni persona ha diritto al massimo della libertà individuale, compatibilmente con la massima libertà anche per tutti gli altri (la “libertà eguale”).

2)      Posto che la libertà determina inevitabilmente l’insorgere di differenze tra gli individui, si stabilisce che le ineguaglianze economiche e sociali sono “giuste” solo se producono benefici compensativi a favore dei “meno avvantaggiati”. Ad esempio, redistribuire equamente il reddito prodotto da un’economia di mercato si rivela – per i ceti meno abbienti – più vantaggioso dell’abolizione del capitalismo. «I  maggiori benefici ottenuti da alcuni– spiega in proposito Rawls – non costituiscono un’ingiustizia, a condizione che anche la situazione delle persone meno fortunate migliori in questo modo».

3)      Il principio di differenza (articolo 2) comporta a sua volta la regola del “maximin” (abbreviazione di maximum minimorum) in base alla quale bisogna migliorare il più possibile la situazione degli svantaggiati. Detto in modo più formale, «le ineguaglianze sono ammesse quando massimizzano la situazione e le aspettative future del  gruppo meno fortunato della società», e quando questa perequazione economica e sociale diventa il primo obiettivo della politica statale.

Non solo pari opportunità “di partenza”, dunque, ma anche l’impegno del potere pubblico in direzione dell’uguaglianza in ogni fase della “corsa”. Formulato in maniera più radicale, anzi, il principio sociale implicito nel patto prevede che tutti i beni siano ripartiti equamente, a meno che la distribuzione ineguale di alcuni di essi non vada a beneficio di tutti. L’ingiustizia dunque non sta nelle differenze sociali in sé, ma nelle differenze socialmente ingiustificate. «Se si vuole assicurare a tutti un’effettiva eguaglianza di opportunità, la società deve prestare maggiore attenzione a coloro che sono nati con meno doti o in posizioni sociali meno favorevoli. L’idea è quella di riparare i torti dovuti al caso, in direzione dell’eguaglianza».

Delle tre famose parole d’ordine della rivoluzione francese, le prime due – libertà ed eguaglianza – sono unificate nel primo principio del contratto, che stabilisce appunto la “libertà eguale”, mentre gli altri due principi di Rawls attengono alla terza invocazione dell’89, ovvero la tanto bistrattata “fraternità”: «Il principio di differenza e la conseguente  regola del “maximin” sembrano corrispondere al significato naturale della fraternità; cioè, all’idea di non desiderare maggiori vantaggi a meno che ciò non vada a beneficio di quelli che stanno meno bene. La famiglia, in termini ideali  e spesso anche in pratica, è uno dei luoghi in cui il principio di massimizzare la somma dei vantaggi è rifiutato. In generale, i membri di una famiglia non desiderano avere dei vantaggi personali, a meno che ciò non promuova gli interessi dei membri restanti. Il voler agire secondo il principio di differenza ha esattamente le stesse conseguenze. Coloro che si trovano nelle condizioni migliori desiderano ottenere maggiori benefici soltanto all’interno di uno schema in cui questo vada a vantaggio dei meno fortunati».

Potrebbe sembrare inappropriato paragonare i “freddi” ed egoistici vincoli sociali a quelli familiari, improntati all’affetto e alla reciproca solidarietà; e infatti dei tre principi della rivoluzione francese, osserva Rawls, il terzo è quello più trascurato. Ma ciò dimostra soltanto quanto sia ancora incompleta la democrazia occidentale. In alternativa ai privilegi della società borghese, ivi compresa una “meritocrazia” non fondata sulle pari opportunità, il filosofo americano propone una società cooperativa, equa e solidale i cui membri, se agiscono razionalmente e moralmente, debbono impegnarsi innanzitutto a ridurre il più possibile le ingiustizie, pur senza mai intaccare o mettere in discussione il primo fondamentale postulato della società giusta, che è la libertà.

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