di GIANCARLO IACCHINI ♦
«Piano, Roberto… piano!». Quando uno scatenato Benigni lo prese letteralmente in braccio, sul palco, durante una manifestazione del Pci, lo schivo e serissimo segretario generale sorrise divertito, ma manifestò con quelle parole, sussurrate all’orecchio dell’irriverente “toscanaccio”, una certa…preoccupazione: «Veramente in quell’istante mi preoccupai anch’io – ricorda Benigni – Infatti l’avevo sollevato mettendoci tutta la forza che avevo, senza immaginare che fosse così leggero, così rischiai proprio di buttarlo per aria!». L’insostenibile leggerezza di essere Enrico Berlinguer (1922-1984), un uomo invece il cui peso politico, nella storia dell’Italia repubblicana, era inversamente proporzionale alla sua figura esile e minuta. Per 12 anni, dal ’72 fino alla morte, fu segretario del Partito Comunista Italiano, erede di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Luigi Longo. Per avere un’idea del suo carisma, e del rispetto che ispirava, bastava guardare i visi e gli occhi delle centinaia di migliaia di cittadini che accorrevano ai suoi comizi, visi e occhi che esprimevano fiducia, orgoglio e speranza. La speranza millenaria di quella “classe lavoratrice” a cui egli faceva costante riferimento, in ogni suo scritto e discorso. Profondamente legato alla sua terra di Sardegna, Berlinguer era stato anarchico in gioventù, ma fin dal 1943 si era iscritto al Pci, portando nel partito di Togliatti la sua concretezza, metodicità, onestà intellettuale, rigore politico e morale. La questione morale appunto, il compromesso storico, l’alternativa democratica, l’austerità, lo strappo con l’Urss, l’eurocomunismo, la terza via: sono solo alcune delle intuizioni e proposte che contraddistinguono la sua indimenticabile era alla guida del più forte partito comunista del mondo occidentale.
Moltissimi italiani ricordano con affetto la sua voce suadente e pacata, scandita dall’inconfondibile accento sardo, alle tribune politiche ed elettorali, con l’immancabile cartello gigante mostrato alla telecamera e l’invito a “votare e far votare” il “primo simbolo in alto a sinistra”, per “cambiare davvero l’Italia”. E ricordano il suo improvvisato comizio davanti ai cancelli della Fiat, senza microfono e senza nemmeno urlare, perché capace di suscitare un rispettoso silenzio e farsi ascoltare da tutti, anche da quanti erano critici nei confronti della linea “moderata” del Pci durante quei drammatici anni di inflazione, disoccupazione, malgoverno democristiano, neofascismo e terrorismo rosso. La sua morte, poi, commosse davvero tutti nel profondo. Crollò colpito da un ictus durante un comizio a Padova, il 7 giugno del 1984, e si spense l’11 giugno dopo quattro giorni di agonia. Si suole ricordare quella frase scandita con disumana fatica prima di accasciarsi tra le braccia dei suoi collaboratori con un fazzoletto premuto sulla bocca: «Compagni, proseguite il vostro lavoro casa per casa, strada per strada…». Eppure pochi rammentano che mentre la folla scandiva forte il suo nome (“Enrico! Enrico!”) per incoraggiarlo, ma anche “basta! Basta così!” perché si era accorta del suo malore e difficoltà a parlare, Berlinguer riuscì stoicamente a concludere il discorso, pur saltando diverse cartelle, e raccogliendo in modo commovente le poche energie che gli restavano trovò la forza di ricordare i grandi valori che avrebbero dovuto sempre ispirare la lotta dei comunisti: «Pace, libertà, giustizia e progresso per il nostro popolo!». Si era alla vigilia delle elezioni europee, e in quella occasione, anche sull’onda dell’emozione popolare per la fine dell’amatissimo leader, il Pci per la prima (ed anche ultima) volta riuscì a superare la Dc, diventando il primo partito italiano, quasi un decennio dopo la spettacolare avanzata del ’75-76. Milioni di persone parteciparono, di persona o attraverso la diretta televisiva, ai suoi funerali. Pur nel dolore profondo della sua gente («Enrico per me era… tutto», mormorarono in molti con voce spezzata ai microfoni dei telegiornali), lo spettacolo di una Roma inondata fino all’inverosimile di folla e bandiere rosse fu imponente e irripetibile.
L’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, che si era precipitato al suo capezzale, non si allontanò da lui per tutti quei giorni di dolore, e davanti alla sua bara esclamò con gli occhi lucidi: «Lo porto via con me, come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta!». Ai funerali il suo braccio proteso sulla bara scatenò il commosso “Sandro, Sandro!” della piazza, a cui il presidente-partigiano rispose salutando e buttando baci con la mano. E qualche tempo dopo spiegò: «Tre aspetti della personalità di Enrico Berlinguer mi hanno sempre colpito: l’incessante, tormentato impegno nello sforzo di aprire vie nuove ad una società come la nostra, in rapida evoluzione e trasformazione; il grande rigore morale; il significato altissimo che egli attribuiva al tessuto di solidarietà antifascista che, al di là delle divisioni ed anche degli scontri, deve tenere insieme tutte le forze democratiche italiane. E questo è anche il mio convincimento. Con questi sentimenti ho seguito la sua agonia e ho pianto la sua morte. Sentivo che perdevo un amico fraterno ed un sicuro compagno di lotta. E la sua perdita la sento oggi in modo amaro e acuto».
Dieci anni prima (il 3 ottobre 1973), in Bulgaria, l’automobile su cui viaggiava il leader del Pci era stata travolta da un camion militare, e morirono due persone che erano con lui. Al ritorno in Italia, confidò che le modalità dell’incidente non gli erano sembrate casuali, ma assomigliavano ad una vera e propria imboscata: la “via nazionale al socialismo”, la ricerca di una “terza via” tra comunismo di stampo sovietico e socialdemocrazia europea (che non aveva superato il capitalismo), l’alternativa “eurocomunista” formulata insieme a Marchais e Carrillo, segretari dei partiti comunisti francese e spagnolo, non piacevano affatto alla nomenklatura del “socialismo reale”, che più volte, ma inutilmente, lo richiamò all’ordine, censurando platealmente alcuni suoi discorsi, compreso quello pronunciato a Mosca in occasione del 60°anniversario della Rivoluzione d’Ottobre (non sapevamo come tradurre “pluralismo”, si giustificò con imbarazzo la redazione della Pravda…). Fin dalla “tragedia di Praga” del ’68, come significativamente la definiva, Berlinguer si rese conto che “la spinta propulsiva dell’Ottobre sovietico” si era ormai definitivamente “esaurita”. E titanico, angosciato ma anche appassionato, fu lo sforzo del leader del Pci di coniugare le ragioni storiche del comunismo novecentesco – “modello sovietico” compreso – con la necessità di rivendicare l’autonomia del partito italiano ed il profondo rinnovamento del suo bagaglio teorico e programmatico, senza rinunciare tuttavia alla sua “diversità”.
«A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida – gli disse il direttore di Repubblica Eugenio Scalfari – Vuole spiegarmi con chiarezza in cosa consiste la vostra “diversità”? C’è da averne paura?». «Qualcuno sì, ha ragione a temerla – rispose Berlinguer – e lei capisce subito chi intendo». Per passare poi a spiegare nel dettaglio questa diversità. Primo, «noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato». Secondo, «noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi; che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni; che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti; che la professionalità e il merito vadano premiati; che la partecipazione di ogni cittadino alla cosa pubblica debba essere assicurata». E terzo, «noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche non funzionino più, e che quindi si possa e si debba discutere in quale modo superare il capitalismo inteso come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo della crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?».
Era la famosa intervista del 28 luglio 1981, quella in cui Berlinguer sollevò con grande nettezza la “questione morale” come prima questione nazionale, anticipando di un decennio, con estrema lucidità e chiarezza, quella “tangentopoli” destinata ad emergere alla luce del sole nel 1992, con l’inchiesta “Mani Pulite”: «I partiti non fanno più politica. Sono degenerati, e questa è l’origine dei malanni d’Italia». Ma conviene riportare quasi integralmente l’impietosa analisi berlingueriana: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente; idee, ideali e programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, ciascuna con un boss e dei sotto-boss. I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai ed alcuni grandi giornali. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico».
Un quadro “da far accapponare la pelle”, osserva il fondatore di Repubblica; ma perché gli italiani non si muovono contro questa vergogna? Ecco come risponde il segretario del Pci: «Molti italiani, secondo me, si accorgono del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto». E allora la “diversità” del Pci addirittura li inquieta. È evidente, nel pensiero di Berlinguer, che senza ripulire il Paese, senza togliere questa cappa di ricatto e di omertà, nessuna alternativa e nessun progresso politico reale sarebbe possibile: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, con la guerra per bande, con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano, è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, l’effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico. Se si continua in questo modo, la democrazia rischia di restringersi, rischia di soffocare in una palude».
Un anno prima della sua morte, durante la trasmissione televisiva “Mixer” di Giovanni Minoli, Berlinguer accettò per la prima volta di rispondere a domande personali. Qual è l’ultimo film che ha visto? «E.T.». E le è piaciuto? «Molto. L’ho trovato pieno di umanità». Qual è il suo peggior difetto? «Forse una certa spigolosità del carattere». E la qualità a cui è più affezionato? «Quella di essere rimasto fedele agli ideali di gioventù». E la cosa che le dà più fastidio sentir dire di lei? «Che sarei triste, perché non è vero». Roberto Benigni, nel titolo di un suo celebre film, fotografò il sentimento di tanta parte del popolo italiano: “Berlinguer ti voglio bene!”. Qualche volta la “diversità” del Pci berlingueriano era spiazzante per molti dei suoi stessi militanti, ma c’era in quella diversità un pensiero così profondo e originale, un… pathos, una “ragione storica” così “pesante” e meditata da far riflettere molto attentamente anche i più critici e perplessi, e che pur nel dissenso impediva di spezzare il filo rosso (di comunanza ideale e di affetto personale) che univa al suo leader riconosciuto tutto il “popolo comunista”, comprese le sue ali più radicali e movimentiste (ci viene in mente ad esempio, ai funerali di Berlinguer, l’impressionante distesa di bandiere di Democrazia Proletaria, allora estremamente critica nei confronti della linea del Pci).
Se a contestare la sacrosanta (e tardiva) rottura con l’Urss brezneviana insorse in modo plateale il solo Armando Cossutta, con quel libro intitolato Lo strappo che a rileggerlo oggi sembra scritto nel paleolitico, non si può dire che idee come il compromesso storico o l’austerità abbiano suscitato grandi consensi a sinistra. E nemmeno furono comprese in tutta la loro portata ideale, neppure ai massimi vertici del partito (ricordiamo il presidente Longo rimproverare al neosegretario l’uso della parola “compromesso”, preferendo quella – gramsciana – di “blocco storico”, segno che l’anziano erede di Togliatti aveva capito ben poco dell’originale proposta avanzata dal nuovo leader del comunismo italiano). Berlinguer inaugurò quella strategia subito dopo l’11 settembre 1973 (il primo tragico “11 settembre”…), giorno del colpo di stato cileno e dell’uccisione del presidente democraticamente eletto, il socialista Salvador Allende. Erano gli anni, in Italia, della strategia della tensione, delle trame nere, dei servizi deviati, di un anticomunismo feroce (quando Junio Valerio Borghese dichiarava tranquillamente alla televisione che i comunisti, se fosse possibile, “sarebbero tutti da sterminare”): ebbene il golpe cileno impressionò nel profondo il segretario del Pci, e lo indusse a pensare che senza l’apporto delle grandi masse cattoliche, senza “l’unità delle vaste masse popolari e antifasciste”, non sarebbe stato possibile introdurre con successo nel nostro paese quelle profonde innovazioni e riforme che lo stesso Berlinguer definirà più tardi “elementi di socialismo”. Non un “blocco” sociale e politico, dunque, ma più limitatamente e realisticamente un “compromesso” temporaneo per spostare più avanti la realtà italiana, mettendo innanzitutto fine alla barbarica reazione “neofascista” dei ceti dominanti: l’avvio di un processo di transizione verso una società “socialista” nel senso di più democratica e umana, ove fossero finalmente “rimossi” sul serio quegli “ostacoli di ordine economico e sociale” che impediscono – secondo non il Manifesto di Marx ma il nostro dettato costituzionale – l’eguaglianza delle opportunità tra tutti i cittadini.
Una proposta discutibile, certo, visto il grande bisogno di “alternativa” dopo 25 anni (allora) di “regime” democristiano, ma alla quale – come si comprende dagli obiettivi che la sottendono – non era di per sé più “di sinistra” contrapporre la semplice alternanza al governo tra due schieramenti entrambi interni al “sistema”, modello caro ai futuri “miglioristi” del partito, ai filo-craxiani ante litteram, ai “borghesi progressisti” avvicinatisi al Pci (vedi la sterzata a sinistra dei settimanali Panorama, L’Espresso e L’Europeo) che rispecchiavano (peraltro non a torto) esigenze più moderne e dinamiche della stessa classe dominante, e che furono determinanti prima nella battaglia referendaria sul divorzio (1974) e poi nell’avanzata del ’75 e ’76 che portò “il partito delle mani pulite” (come da fortunato slogan elettorale) a ridosso della Dc fino a ventilare il famoso “sorpasso”. Detto questo, bisogna riconoscere che gli anni della cosiddetta solidarietà nazionale (’76-79), pur ossessionati dall’emergenza-terrorismo, appannarono non poco l’afflato ideale e “storico” del “compromesso” immaginato da Berlinguer, e lui stesso dovette prenderne atto all’inizio degli anni Ottanta: «Abbiamo dichiarato e ripetiamo che quell’esperienza politica è per noi conclusa. La nostra attuale prospettiva è quella di un’alternativa democratica al sistema di potere dominato dalla Dc».
E poi la cosiddetta “austerità”. Anche qui, criticare il consumismo quando ancora milioni di italiani (operai e contadini) ne erano esclusi, ed aspiravano ad esserne finalmente partecipi, poteva suonare paradossale proprio alla base del partito comunista, ma alla luce degli sprechi economici e dei disastri ecologici che in seguito ha prodotto, la critica “austera” del consumismo da parte di Berlinguer può definirsi oggi a buon diritto assolutamente profetica e illuminante: «Noi sosteniamo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati – di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi ex coloniali e della loro indipendenza – non consente più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa». Al congresso della Fgci del 1982 Berlinguer ammonì i giovani con questi accenti preoccupati e severi: «Bisogna riflettere su alcune caratteristiche peculiari dell’epoca in cui viviamo e pensare ai problemi che cominciano a porsi come decisivi per i prossimi due decenni fino e oltre il duemila; nel periodo cioè in cui vivranno e raggiungeranno la maturità i giovani di oggi. A questa soglia dello sviluppo storico si presentano problemi non solo del tutto nuovi, cosa che è accaduta in varie epoche del cammino dell’umanità, ma di portata tale da generare possibilità e pericoli straordinari e sin qui impensati e impensabili». E più esplicitamente: «Occorre abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, parassitismi, privilegi, dissipazione delle risorse, dissesto finanziario. Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità ineludibile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base». Rispondendo alle critiche suscitate dalla sua proposta, il leader del Pci chiariva che «una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, né deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana». In altre parole, «la politica di austerità quale è da noi intesa può essere fatta propria dalla classe operaia proprio in quanto essa recide alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. “Lorsignori”, come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l’assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi vent’anni e, insieme, di abbassare i salari».
Analisi contraddittoria e complessa, come si vede, non priva di elementi di ambiguità e che si prestava indubbiamente, vista da sinistra, a critiche e perplessità senz’altro fondate, ma che un “dissidente” come Lucio Magri, tra i fondatori del gruppo del “Manifesto” e poi segretario del Pdup, “assolveva” in questo modo: «Come si può negare che il suo discorso sull’austerità (da intendere come modello di consumo sobrio, non solo sacrifici per l’emergenza), come del resto quelli sul pacifismo, il sud del mondo, il «governo mondiale», il femminismo della differenza, la democrazia economica prendessero atto, in certo senso anticipandoli, dei problemi più nuovi e sconvolgenti della modernità?». La valenza della questione ecologica, non troppo evidenziata nei discorsi sull’austerità, è comunque ben presente nel pensiero berlingueriano: «Si è cominciato a parlarne seriamente solo all’inizio degli anni 70: prima, e ancora per tutti gli anni 60, imperava il vacuo ottimismo del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni. La necessità di vivere in città meno alienanti e disumane, di salvare la natura e i beni culturali, di avere una vita più ricca e piena, tutto ciò sta diventando necessità primaria, come erano una volta le necessità di sussistenza. Ecco perché il movimento ecologista ha acquistato un rilievo così grande. Si esprime anche in questo modo una coscienza critica verso la società in cui viviamo. L’uso irragionevole delle nuove tecniche e uno sviluppo quantitativo imponente ma incontrollato hanno già determinato non solo la possibilità, ma la minaccia concreta di rovine ecologiche gravissime e irreparabili. L’allarme lanciato da alcuni tra i maggiori studiosi contemporanei avverte sull’esistenza di danni crescenti per l’acqua – i fiumi, i laghi, i mari – e per l’aria che respiriamo, per l’atmosfera che circonda la Terra. E già vi sono, purtroppo, i segni concreti di potenzialità distruttive inaudite in processi apparentemente innocui o protetti: a pochi chilometri da Milano vi fu il caso di Seveso, dove la diossina fece deserto; altrove sono stati i difetti di centrali nucleari, e in ogni parte si avvertono le conseguenze sulla natura e sugli uomini dell’inquinamento crescente. Le questioni della difesa degli equilibri naturali, del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente sono temi tipici del nostro tempo e domineranno i prossimi due decenni». Berlinguer si riferiva agli ultimi del ventesimo secolo ma il discorso vale allo stesso modo, come ben sappiamo, per questo inizio del terzo millennio, visto che quei problemi, lungi dall’aver trovato soluzioni adeguate a cavallo tra Novecento e Duemila, si sono pesantemente aggravati.
Altro tema “nuovo”, all’epoca, la questione femminile, a cui Berlinguer fu molto sensibile: «È tempo di ripensare i fondamenti più profondi del nostro vivere in società, sino alla ridiscussione dei ruoli storicamente assegnati agli uomini e alle donne. Oggi, con lo svolgimento dei nuovi movimenti femminili e femministi, siamo all’inizio di un mutamento nelle coscienze delle donne destinato alle conseguenze più grandi. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che il ripensamento della condizione secolarmente riservata alle donne, lo sviluppo del loro movimento di liberazione e il superamento dei limiti della concezione puramente emancipatrice – che consisteva nel proporre alle donne l’imitazione del modello maschile – tutto questo porta con sé una riconsiderazione generale della società e della politica». Nonostante la rispettosa attenzione e le profferte di unità rivolte al “mondo cattolico” durante tutto il periodo della sua segreteria, Berlinguer non perse mai di vista la causa della laicità dello stato, ed anche se avrebbe certamente preferito evitare una contrapposizione così… radicale sui diritti civili, guidò con coerenza il partito nelle vittoriose battaglie referendarie (laiche e femministe) su divorzio e aborto. C’era anche il fenomeno del volontariato che cominciava a diffondersi specialmente tra i giovani: «Esso corrisponde alla necessità effettiva di vedere almeno alleviati molti dei problemi assillanti di tanta parte della popolazione. E il volontariato non è un fenomeno soltanto cattolico. Alle radici stesse del movimento operaio c’è il moto della solidarietà reciproca; l’originario costituirsi (prima delle leghe e del partito) di associazioni di mutuo soccorso, di reciproco sostegno. In molte organizzazioni del volontariato credenti e non credenti lavorano insieme ed anche quando le organizzazioni sono distinte e le aspirazioni ideali diverse, sovente le finalità di solidarietà umana restano comuni». Non è lecito dunque, neppure per i comunisti, attendersi tutto dallo stato: «Certo non si può fare a meno della mano pubblica, come qualche teorico suggerisce, tuttavia bisogna prendere posizione contro lo statalismo burocratico, bisogna essere capaci di vedere le risorse autonome della società e saperle valorizzare in un dialogo continuo tra istituzioni democratiche e sollecitazioni che vengono direttamente dalla società stessa. Lo sviluppo dell’associazionismo e del volontariato indica che non basta partecipare, bisogna poter contare veramente, bisogna fare, bisogna contribuire a risolvere questioni reali. La democrazia deve congiungersi con la libertà, con l’efficienza e la responsabilità, per divenire autentica liberazione». Più in generale (ed universalmente) la libertà, come cantava Giorgio Gaber, è partecipazione: «Il processo di liberazione dei popoli si è fondato sul risveglio delle coscienze individuali di miliardi di uomini. La partecipazione non solo accende gli animi, ma li dispone alla conoscenza, rendendoli protagonisti attivi di un processo di trasformazione. Non per caso la volontà dei conservatori e dei reazionari di ogni latitudine e di ogni stampo è innanzitutto quella di tenere o rendere passivi e conformisti le donne e gli uomini, e innanzitutto le giovani generazioni».
Infine, il nuovo socialismo prefigurato da Enrico Berlinguer: «Noi lottiamo per la trasformazione della società e la sua umanizzazione. Il problema che dobbiamo porre è come si possono affrontare contraddizioni che rasentano ormai l’assurdità, tra abissi di miseria e culmini di ricchezza, tra spreco degli armamenti e bisogni elementari insoddisfatti, tra potenzialità del sapere e meschinità della conduzione politica, senza avere l’obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale. L’esigenza di una concezione e di una strada originali non deriva unicamente dalla constatazione di insufficienze e limiti altrui (dei modelli di tipo sovietico e delle esperienze socialdemocratiche), ma anche e innanzitutto dai problemi posti dall’età che stiamo vivendo, dai processi di trasformazione materiale, dall’esistenza di contraddizioni profonde, non prima conosciute. Noi riscopriamo proprio così l’esigenza del socialismo inteso come sforzo per una direzione consapevole e democratica dei processi economici e sociali, fondata sulla difesa e la pienezza di tutte le libertà. Ci si risponde che il socialismo come lo pensiamo noi non esiste e che quindi si tratta di una parola vuota. Quando iniziarono le prime rivoluzioni liberali, le costituzioni democratiche non esistevano, ma non per questo parole come democrazia e costituzione erano parole vuote. Se tutte le parole che esprimono nuovi bisogni per la società fossero state considerate superflue, la storia propriamente umana non sarebbe neppure cominciata. Del resto è del tutto falso che la parola socialismo non sia venuta già esprimendo valori universali, così come la parola democrazia. Nell’idea socialista è compresa come essenziale la necessità di forme consapevoli di direzione del processo economico al fine di garantirne un equilibrato sviluppo e una maggiore giustizia sociale. Il fatto che molte esperienze siano state manchevoli o erronee non elimina il valore di queste esigenze. La necessità del socialismo e di un movimento per il socialismo riprende dunque forza come espressione delle condizioni oggettive, materiali, del mondo di oggi e dei bisogni che l’uomo di oggi chiede siano soddisfatti. Al tempo stesso questa esigenza nasce da una opzione etica: se non si vuole che la giustizia prevalga sull’ingiustizia, non si giunge alla scelta del socialismo, e di un socialismo nuovo. Chi si rassegna all’ingiustizia, o l’accetta, o peggio la vuole perché ne trae un vantaggio, compie altre scelte. Noi insomma siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è nobile e necessaria, e può riempire degnamente una vita».