Riccardo Lombardi

Riccardo Lombardi

di GIANCARLO IACCHINI

All’alba del ventesimo secolo nasceva una grande personalità del socialismo italiano: Riccardo Lombardi (1901-1984). A parlare di lui bisogna rifuggire la retorica, perché se c’è una cosa assolutamente lontana dal suo modo di essere e di agire, è proprio quella. Fu uomo del fare, e del fare concreto, il socialista siciliano trapiantato nel capoluogo lombardo (divenne prefetto di Milano subito dopo la Liberazione, ed appena assunta la carica propose l’abolizione dei prefetti, giusto per dimostrare quanto tenesse alle… poltrone). Allora militava ancora nel Partito d’Azione, sotto le cui bandiere aveva guidato la Resistenza antifascista dopo il canonico passaggio attraverso “Giustizia e Libertà”, per poi confluire nel Partito Socialista Italiano dopo lo scioglimento del PdA.

Lombardi fu l’uomo della ricostruzione, economica e morale, a partire dalla “basi” materiali e infrastrutturali del paese, ed in questo fece valere la sua professione di ingegnere, insieme al suo sano pragmatismo anti-ideologico: «A me sembra che una politica intelligente e che si preoccupi dell’avvenire della classe operaia si deve soprattutto preoccupare di salvare l’efficienza economica dell’apparato industriale; poi che questo apparato resti di proprietà privata o passi in proprietà collettiva, il problema non muta», ebbe a dire in quel drammatico ma liberatorio 1945.

Efficienza e “pulizia” prima di tutto, a vantaggio della classe operaia, senza schemi ideologici precostituiti. Andando al nocciolo dei problemi, al di là del “fumo” politico che pure amava aspirare come il fumo della sua pipa: «Io non giudico un partito politico dal suo programma, che è sempre qualcosa di astratto ed esangue, ma dall’atteggiamento che esso tiene su quei due o tre problemi essenziali che si presentano in ogni fase decisiva; dal risalto, dallo spicco che esso sa dare alle soluzioni concrete dei problemi posti dalla situazione».

Era stato picchiato a sangue dai fascisti, dopo essere stato arrestato, e quelle botte gli avrebbero compromesso la salute per tutta la vita, danneggiandogli un polmone. Nel ’43 aveva fondato il giornale clandestino “L’Italia libera”, e radicalmente libertaria era la sua idea del socialismo, unendo insieme Marx e Keynes, ma anche Schumpeter e i “tecnici” della socialdemocrazia nordeuropea: «All’azione rivoluzionaria deve seguire, senza soste e senza debolezze, l’azione riformatrice (dico riformatrice, non riformista) in modo da pervenire il più rapidamente possibile alla riforma della struttura dello Stato». Già, il suo vecchio pallino delle “riforme di struttura”, che invocherà per tutti gli anni Sessanta e Settanta, non senza qualche significativo risultato pratico (la nazionalizzazione dell’energia elettrica fu in gran parte opera sua). Poi negli anni Ottanta gli toccò di assistere a quella che lui stesso definì la “mutazione genetica” del Psi, con l’avvento di Craxi e del craxismo. E uno che “incideva le idee a colpi di scalpello” (come scrive Paolo Vittorelli) dimostrò di saperci fare anche con le parole: «Ci sono più socialisti in galera oggi che ai tempi del fascismo», sbottò sarcastico dopo l’esplosione di Tangentopoli.

Nessuno più di lui poteva essere estraneo e lontano (anni luce) dal “nuovo socialismo” dei… nani e ballerine: lui che parlava di teorie economiche perfino nei comizi, con la più scrupolosa attenzione al rapporto tra il settore pubblico e quello privato, invocando il controllo democratico del primo sul secondo e, per entrambi, la regola aurea della massima efficienza. Idee chiare fin dalla Liberazione: «Il Partito d’Azione assegna al nuovo Stato il compito di un piano di ricostruzione economica che coordini i due settori a gestione socializzata e a gestione privata, indirizzi la politica finanziaria, del credito industriale e dei lavori pubblici all’integrale utilizzazione della capacità produttiva del Paese e all’assorbimento delle energie di lavoro disponibili. Questo piano di ricostruzione nazionale dovrà essere inquadrato in un piano europeo e mondiale di più razionale distribuzione delle materie prime, delle industrie produttive, dei traffici e delle forze del lavoro. Tale coordinamento economico, il cui fine dev’essere di sviluppare al massimo la circolazione libera degli uomini e delle merci sulla terra, è alla base del nuovo ordine democratico internazionale». Concetti di immutata attualità, dopo decenni di una politica economica ed estera contro la quale Lombardi si è battuto per tutta la seconda parte della sua vita, da parlamentare socialista e testimone moralmente indiscusso dell’antifascismo militante.

Senza perdere mai di vista né il piano ideale (la concreta utopia del socialista radicale) né quello concreto, hic et nunc, a beneficio degli interessi presenti e futuri del popolo lavoratore: «Che cosa è essenziale per la democrazia in Italia? È essenziale che il Paese sia attivizzato, che il più gran numero possibile di lavoratori di tutti i ceti sia interessato politicamente ed economicamente ad uno stato democratico, al punto che tutti si sentano minacciati quando la democrazia è in pericolo; abbattere le strutture corporative che sono le eredità più persistenti del fascismo e che ancora oggi sono profondamente radicate nella coscienza non soltanto dei singoli ma perfino dei partiti e dei partiti sedicenti rivoluzionari; riformare l’apparato burocratico dello Stato; frenare le inframmettenze clericali». Le “inframmettenze”, disse proprio così, con un curioso arcaismo che oggi naturalmente si tradurrebbe con “interferenze”: ma non cambia la straordinaria attualità del concetto.

Un politico vero, a tutto tondo e “tutto d’un pezzo” come pochi, questo galantuomo siciliano che ebbe il rispetto di tutti gli avversari, ma uno che sapeva prendere le distanze dalla politica come professione; da questo punto di vista, in piena sintonia con la tipica nobiltà morale dei grandi azionisti: «Il Partito d’Azione – scrisse dopo il disastro della guerra fascistacostituisce oggi il solo partito che non si preoccupa affatto di vincere come partito, che non condiziona per niente il raggiungimento del suo programma alla conquista dello Stato da parte del partito stesso e come tale, pur nelle sue manchevolezze organizzative e nella esiguità della sua base di massa, rappresenta una forza democratica dalla funzione insostituibile. Io so benissimo che nella competizione elettorale il PdA avrà una possibilità infinitamente più ridotta che nella fase cospirativa e nella guerra di liberazione; indiscutibilmente il numero dei suoi deputati sarà infinitamente inferiore al numero dei suoi fucilati: tuttavia io so che se questa forza mancasse, la democrazia italiana sarebbe impoverita perché sono profondamente convinto che le forze tradizionali italiane, da sole, sono troppo legate costituzionalmente ad una concezione, ad una pratica ed a una mentalità che potranno anche essere occasionalmente utilizzate per la democrazia, ma non sono necessariamente e solo democratiche, e sono incapaci di tenere il loro posto in qualunque situazione e davanti a qualunque pericolo».

Fu facile profeta di un democrazia zoppa e ben poco laica ed autonoma. Ma oggi, a quarant’anni dalla morte, l’esempio etico e politico di Riccardo Lombardi può dire molto a chi intenda rifondare la sinistra e l’intero senso della politica in questo paese, cercando di non separare più la lungimiranza dei valori dalla concretezza della prassi quotidiana. Giustamente un profondo conoscitore del pensiero lombardiano come Giovanni Scirocco così scrive: «Che cosa ci manca di Lombardi? Ci manca, a mio parere, il segno della sua contraddizione, la scommessa fallita ma tenacemente indicata di tenere insieme la democrazia coi suoi limiti e l’idea di un socialismo radicale». Ecco perché la definizione “radicalsocialista” è un binomio linguistico e concettuale che non sarebbe dispiaciuto al fiero esponente dell’altro socialismo, quello vero e quello antico: né dogmatico-totalitario, né riformista-rinunciatario.

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