di NOAM CHOMSKY –
L’argomento che mi è stato proposto e di cui sono molto lieto di parlare è “democrazia ed istruzione”. Questa frase mi richiama subito alla mente la vita e l’opera ed il pensiero di uno dei maggiori pensatori del secolo scorso, John Dewey, che dedicò gran parte della sua vita e la sua riflessione a questo insieme di questioni. Credo che dovrei confessare il mio interesse speciale per lui. Semplicemente si dà il caso che il suo pensiero abbia esercitato una forte influenza su di me negli anni della mia formazione, per una serie di ragioni nel cui dettaglio non entrerò ma che sono reali. Per gran parte della sua vita, Dewey sembra aver ritenuto che le riforme nell’istruzione di base potessero costituire in se stesse delle leve di cambiamento sociale, che avrebbero potuto aprire la strada verso una società più giusta e libera, in cui, per usare le sue parole, «il fine ultimo della produzione non sia la produzione di beni, ma la produzione di esseri umani liberi reciprocamente associati in condizioni di uguaglianza».
Questa convinzione fondamentale, che attraversa tutto il lavoro ed il pensiero di Dewey, è in profondo disaccordo con le due tendenze principali della vita intellettuale della società moderna. Una, forte ai suoi tempi, si associa con le economie dell’Europa Orientale, i sistemi creati da Lenin e Trotsky e trasformati in una mostruosità da Stalin. L’altra, la società industriale a capitalismo di stato degli USA e dell’Europa Occidentale, segnata dal dominio effettivo del potere privato. Questi due sistemi erano in realtà simili in aspetti fondamentali, incluso quello ideologico. Entrambi erano, ed uno di essi rimane, profondamente autoritari ed entrambi erano nettamente e fortemente opposti ad un’altra tradizione, quella libertaria di sinistra radicata nei valori dell’Illuminismo, una tradizione che comprendeva i liberali progressisti alla John Dewey, i socialisti indipendenti come Bertrand Russell, i principali esponenti della corrente fondamentale del marxismo e naturalmente i socialisti libertari dei vari movimenti anarchici, per non parlare di porzioni importanti del movimento dei lavoratori e di altri settori popolari. Questa sinistra indipendente, di cui Dewey faceva parte, ha radici profonde nel liberalismo classico. Ne deriva direttamente, dal mio punto di vista, e si oppone nettamente alle correnti assolutiste delle istituzioni e del pensiero del capitalismo o del socialismo di stato.
Facciamo ritorno ad uno dei temi centrali di Dewey, cioè che il fine ultimo della produzione non è la produzione di beni ma quella di esseri umani liberi che si associano reciprocamente in condizioni di uguaglianza. Ciò comprende, naturalmente, l’istruzione, una delle sue occupazioni principali. L’obiettivo dell’istruzione, per spostarci a Bertrand Russell, è «dare un senso al valore delle cose diverso da quello del dominio, contribuire a creare cittadini consapevoli di una comunità libera, incoraggiare la combinazione di cittadinanza e libertà, creatività individuale, che significa che consideriamo un bambino allo stesso modo in cui un giardiniere guarda ad un arbusto, come qualcosa dotata di una natura intrinseca che si svilupperà in maniera ammirevole data la giusta combinazione di terreno, aria e luce». Di fatto, per quanto discordassero su molte cose, Dewey e Russell sono stati forse i due maggiori pensatori del XX secolo in Occidente. Erano d’accordo su ciò che Russell chiamava concezione umanistica, radicata nell’Illuminismo, l’idea che l’educazione non va vista come l’atto di riempire un recipiente, ma piuttosto quello di aiutare un fiore a crescere a modo suo.
Dewey e Russell condividevano altresì la convinzione che queste idee dell’Illuminismo e del liberalismo classico avessero un carattere rivoluzionario. Se realizzate, queste idee potevano produrre esseri umani liberi i cui valori non fossero l’accumulazione e il dominio, ma piuttosto la libera associazione in condizioni di eguaglianza e la condivisione e la cooperazione, la partecipazione paritaria al raggiungimento di obiettivi comuni che fossero concepiti democraticamente. Vi era solo disprezzo per ciò che Adam Smith definì «la vile massima dei signori dell’umanità, tutto per loro e niente per gli altri». Il principio guida che oggi ci viene insegnato ad ammirare e riverire, quando ormai i valori tradizionali sono stati erosi attraverso un attacco senza sosta, con i cosiddetti conservatori alla guida dell’offensiva negli ultimi decenni.
Vale la pena di prendersi il tempo per sottolineare quanto netto e forte è lo scontro di valori tra la concezione umanistica, da un lato, che corre dall’Illuminismo fino a figure capitali del XX secolo come Russell e Dewey, e le dottrine predominanti di oggi, dall’altro, quelle che furono denunciate da Adam Smith come “la vile massima” e altresì dalla vivace e vibrante stampa della classe lavoratrice di un secolo fa, che condannava ciò che chiamava il «nuovo spirito della nuova era: guadagnare ricchezze, dimenticando tutto tranne se stessi». La vile massima di Smith.
È significativo tracciare l’evoluzione dei valori a partire da un pensatore precapitalistico come Adam Smith, che poneva l’accento sulla simpatia, sull’obiettivo dell’uguaglianza perfetta e sull’essenzialità del diritto umano ad un lavoro creativo, e contrastarli, venendo al presente, con quelli che lodano il nuovo spirito del tempo, invocando a volte senza vergogna il nome di Adam Smith. Per esempio, James Buchanan, economista vincitore del Premio Nobel, che scrive che «ciò che ogni persona cerca in una situazione ideale è il dominio su un mondo di schiavi». Questo è quello che volete, se non ve ne foste resi conto. Una cosa che Adam Smith avrebbe considerato patologica.
Sulla stampa operaia di metà Ottocento (prima ancora del marxismo) si poteva leggere: «Quando si vende un prodotto si conserva integra la persona. Ma quando si vende il lavoro ci si vende interamente, perdendo i diritti di uomo libero e diventando vassalli di stabilimenti elefantiaci e di un’aristocrazia danarosa che minaccia di annichilire chiunque metta in discussione il suo diritto a schiavizzare ed opprimere. Coloro che lavorano nelle fabbriche dovrebbero possederle, non avere lo stesso status di macchinari governati da despoti privati che impiantano i principi monarchici sul suolo democratico mentre ricacciano indietro la libertà ed i diritti, la civiltà, la salute, la morale e il pensiero nel nuovo feudalesimo commerciale». La stampa dei lavoratori condannava anche ciò che chiamava i “clerici venduti”, riferendosi ai media, alle università e agli intellettuali, cioè agli apologeti che cercavano di giustificare il dispotismo assoluto che era il nuovo spirito dell’epoca e di instillare i suoi sordidi valori.Uno dei leaders originari dell’AFL, alla fine dell’Ottocento, espresse il punto di vista di tanti descrivendo la missione del movimento dei lavoratori in questi termini: «sconfiggere i peccati del mercato e difendere la democrazia estendendola fino al controllo delle industrie da parte di lavoratori».
Tutto ciò sarebbe risultato perfettamente comprensibile ai fondatori del liberalismo classico, gente come Wilhelm von Humbolt, per esempio, che ispirò John Stuart Mill e che, come il suo contemporaneo Adam Smith, considerava il lavoro creativo liberamente intrapreso in associazione con altri uomini come il valore centrale della vita umana. Così, se una persona produce un oggetto su ordinazione, scriveva Humboldt, possiamo ammirare ciò che ha fatto ma disprezzeremo ciò che è, non un vero essere umano che agisce seguendo i suoi impulsi ed i suoi desideri. I clerici venduti avevano il compito di minare alla base questi valori e distruggerli nelle persone che si vendono sul mercato del lavoro. Per ragioni simili, Adam Smith avvisò che in ogni società civile i governi avrebbero dovuto intervenire per impedire che la divisione del lavoro trasformasse le persone «in creature tanto stupide ed ignoranti quanto è possibile per un essere umano». Smith basava il suo supporto sfumato al mercato sulla tesi che se le condizioni fossero davvero libere, i mercati avrebbero portato all’uguaglianza perfetta. Questa era la loro giustificazione morale, ma tutto ciò è stato dimenticato dai clerici venduti che hanno una storia piuttosto diversa da raccontare.
Dewey e Russell sono due dei maggiori eredi di questa tradizione, che ha radici nell’Illuminismo e nel liberalismo classico. Ancor più interessante è la storia ispiratrice delle lotte e dell’organizzazione e della protesta degli uomini e delle donne lavoratrici a partire dagli inizi del XIX secolo., quando cercavano di conquistare la libertà e la giustizia e di conservare i diritti che una volta avevano, mentre il nuovo dispotismo del potere privato sostenuto dallo stato estendeva la sua influenza. La questione elementare fu formulata con una buona dose di chiarezza da Thomas Jefferson attorno al 1816, prima che la rivoluzione industriale avesse preso davvero piede nelle ex colonie, ma quando già potevano vedersene gli sviluppi. Nei suoi ultimi anni Jefferson, osservando ciò che accadeva, nutriva dei seri dubbi circa il destino dell’esperimento democratico. Temeva la nascita di una nuova forma di assolutismo più minacciosa di quella che era stata schiacciata con la rivoluzione americana, di cui era stato un leader. Jefferson faceva la distinzione, negli ultimi anni di vita, tra quelli che chiamava gli “aristocratici” e i “democratici”. Gli aristocratici sono «coloro che temono e che non hanno fiducia nelle persone, e desiderano sottrarre loro tutti i poteri per metterli nelle mani delle classi superiori». I democratici, al contrario, «si identificano con il popolo, hanno fiducia in esso, si preoccupano per esso e lo considerano come il repositorio dell’interesse pubblico, se non sempre il più saggio». Gli aristocratici dei suoi giorni erano i sostenitori del nascente stato capitalista, che Jefferson guardava con sdegno, riconoscendo chiaramente la contraddizione del tutto evidente tra democrazia e capitalismo, o, più accuratamente, ciò che potremmo chiamare il capitalismo esistente realmente, cioè guidato e finanziato da potenti stati come Inghilterra e USA.
Questa contraddizione fondamentale fu rafforzata dalla concessione di poteri sempre maggiori alle nuove strutture economiche, non attraverso procedure democratiche ma prevalentemente attraverso tribunali e avvocati che trasformarono quelle che Jefferson chiamava «le istituzioni bancarie e le incorporazioni monetarie» – che, diceva, avrebbero distrutto la libertà e di cui poté a stento vedere la nascita nei suoi giorni – in “persone immortali”, con poteri e diritti ben al di là dei peggiori incubi di pensatori precapitalisti come Adam Smith o Thomas Jefferson. Mezzo secolo prima Adam Smith già aveva messo in guardia da questo, benché potesse a stento vederne gli inizi. La distinzione jeffersoniana tra aristocratici e democratici fu sviluppata circa mezzo secolo più tardi da Bakunin, pensatore ed attivista anarchico, con una delle poche predizioni delle scienze sociali che di fatto si siano dimostrate vere. Dovrebbe avere un posto d’onore in ogni curriculum accademico serio nelle scienze sociali e nelle lettere per questa ragione sola. Nel XIX secolo Bakunin previde che l’intelligentzia nascente avrebbe seguito una di due strade parallele. Una sarebbe stata sfruttare le lotte popolari per prendere il potere statale, costituendosi in quella che chiamava una «burocrazia rossa che imporrà il regime più crudele e viziato della storia». Questo è un cammino; l’altro, diceva, sarà di quelli che scopriranno che il potere reale è altrove, e si trasformeranno nei suoi clerici venduti, servendo i veri padroni del sistema di potere privato sostenuto dallo stato, o come managers o apologeti che picchiano il popolo con il bastone del popolo, per dirla con le sue parole, nelle democrazie capitaliste di stato. Le somiglianze sono sorprendenti e arrivano fino al presente. Aiutano a spiegare la rapida transizione delle persone dall’una all’altra posizione, all’apparenza strana ma di fatto rispondente ad una ideologia comune. L’abbiamo visto nell’Europa dell’Est con il gruppo di quelli a volte chiamati capitalisti della nomenklatura, la vecchia classe dominante al potere, ora i maggiori entusiasti del mercato, che si arricchiscono mentre le loro società diventano normali società del Terzo Mondo. Il passaggio è semplicissimo, perché si tratta essenzialmente della stessa ideologia. Il passaggio dall’essere commissari stalinisti alla celebrazione dell’America è piuttosto normale nella storia moderna, e non richiede un grosso cambio nei valori, solo lo spostamento del giudizio di dove risiede il potere.
John Dewey era un erede della tradizione liberale classica dell’Illuminismo che si opponeva alla carica degli aristocratici, sia che si collocassero nella porzione conservatrice o in quella liberale di questo ristrettissimo spettro politico. Dewey comprese chiaramente che «la politica è l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici», e fintanto che ciò permanga vero, «un’attenuazione dell’ombra non cambierà la sostanza», intendendo che le riforme sono di utilità limitata. La democrazia richiede che la causa dell’ombra sia rimossa non solo per il suo dominio sull’arena politica, ma perché le stesse istituzioni del potere privato incrinano la democrazia e la libertà. Dewey era molto esplicito riguardo al potere antidemocratico che aveva in mente. Per citarlo: «Il vero potere oggi risiede nel controllo dei mezzi di produzione, scambio, pubblicità, trasporto e comunicazione. Chiunque li possieda controlla e domina la vita del paese, anche se permangono forme di democrazia. Affari finalizzati al profitto privato attraverso il controllo privato delle banche, della terra e dell’industria, rafforzato dal controllo della stampa e degli altri mezzi di pubblicità e propaganda, che è il sistema di potere attuale, la fonte di coercizione e controllo, e finché non sia rovesciato non potremo parlare seriamente di democrazia e libertà».
L’istruzione in cui sperava, come produzione di esseri umani liberi, doveva essere uno dei mezzi per mettere in discussione questa mostruosità assolutista.In una società libera e democratica, sosteneva Dewey, i lavoratori dovrebbero essere padroni del loro destino industriale, non strumenti affittati dai datori di lavoro. Concordava su questioni fondamentali con i fondatori del liberalismo classico e con i sentimenti democratici e libertari che animavano i movimenti dei lavoratori sin dagli inizi della rivoluzione industriale, fino a che non furono abbattuti da una combinazione di violenza e propaganda. Nel campo dell’istruzione, perciò, Dewey riteneva “illiberale ed immorale” insegnare ai bambini a lavorare «non liberamente ed intelligentemente, ma allo scopo di guadagnare dal lavoro», nel qual caso la loro attività «non è libera perché non vede una libera partecipazione». Ancora la concezione del liberalismo classico e dei movimenti dei lavoratori. Perciò, sosteneva Dewey, le aziende devono cambiare, passando «da un ordine feudale ad uno democratico», basato sul controllo da parte dei lavoratori e sulla loro libera associazione, ancora una volta classici ideali anarchici che affondano le loro radici nel liberalismo classico e nell’Illuminismo.
Siccome il sistema di pensiero si è ristretto sotto l’assalto del potere privato, in particolare nel corso degli ultimi decenni, questi valori libertari suonano oggi esotici ed estremi, forse anche antiamericani, per usare uno dei termini del pensiero totalitario odierno in Occidente. Dati questi cambiamenti, è utile ricordare che le idee che Dewey esprimeva sono americane quanto la torta di mele. Trovano origine direttamente nelle tradizioni americane, proprio quelle di maggioranza, al di là di qualsiasi influenza da parte di pericolose ideologie straniere, all’interno di una degna tradizione che viene lodata in maniera rituale, benché sia normalmente distorta e dimenticata. E tutto ciò è parte del deterioramento della democrazia al giorno d’oggi, sia al livello istituzionale che ideologico.
Una commissione di comitati statali per l’istruzione e l’Associazione Medica Americana hanno riferito che «mai una generazione di bambini è stata meno in salute, meno oggetto di attenzioni e meno preparata alla vita di quanto lo fossero i loro genitori alla stessa età». È una grande cambiamento in una società industriale. È solo nelle società angloamericane che questo spirito anti-bambini, anti-famiglia ha regnato sotto le spoglie del conservatorismo e dei valori della famiglia. È un vero trionfo per la propaganda, che avrebbe sorpreso finanche il “generalissimo” Woodrow Wilson, o probabilmente Stalin o Hitler. Una manifestazione simbolica di questo disastro è il fatto che mentre 146 paesi hanno ratificato la convenzione internazionale sui diritti dei bambini, gli USA non l’hanno fatto. E quando l’Organizzazione Mondiale per la Sanità votò la condanna della Nestlé per il suo marketing aggressivo di latte in polvere, che uccide moltissimi bambini, il voto fu di 118 contro 1 – indovinate pure chi fu l’uno. Comunque, questa è una cosa da niente rispetto a ciò che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama un “genocidio silenzioso” che sta uccidendo milioni di bambini ogni anno come risultato delle politiche del libero mercato per i poveri e del rifiuto dei ricchi di concedere un qualunque aiuto. Ancora, gli USA hanno una delle storie peggiori e di maggior miseria tra le società ricche.
Questo disastro per bambini e famiglie è in parte il risultato della diminuzione dei salari. Le politiche statali sono state pensate per arricchire settori limitati ed impoverire la maggioranza, e ci sono riuscite. Hanno avuto esattamente l’effetto voluto. Ciò significa che le persone devono lavorare molto più a lungo per sopravvivere. Per molta parte della popolazione, entrambi i genitori devono lavorare forse 50 o 60 ore alla settimana soltanto per soddisfare i bisogni. Nel frattempo, incidentalmente, i profitti aziendali vanno in orbita. Il magazine Fortune parla di profitti “folgoranti” che raggiungono nuove vette anche se le vendite stagnano. Un altro fattore è l’insicurezza del lavoro, ciò che gli economisti chiamano “flessibilità dei mercati del lavoro”, che è una cosa buona secondo la teologia accademica regnante, ma una cosa piuttosto nefasta per gli esseri umani, il cui destino non rientra tra le preoccupazioni del pensiero “serio”. Flessibilità significa che fai meglio a lavorare di più. Non ci sono contratti né diritti. Questa è la flessibilità. Dobbiamo liberarci delle rigidità del mercato.
Gli economisti possono spiegarcelo. Quando entrambi i genitori fanno lo straordinario, ed entrambi guadagnano sempre meno, non ci vuole un genio per predire il risultato. Lo mostrano le statistiche, lo si può leggere nello studio UNICEF. È del tutto ovvio ciò che succede. Il tempo di contatto, cioè il tempo effettivamente speso dai genitori con i figli, è diminuito del 40% negli ultimi 25 anni nelle società angloamericana. Ciò significa esattamente tra le dieci e le dodici ore alla settimana di contatto eliminato; e ciò che chiamano “tempo di alta qualità” sta praticamente sparendo. Chiaramente ciò porta alla distruzione dell’identità e dei valori della famiglia. Conduce all’affidarsi nettamente di più alla televisione per quanto concerne la supervisione dei bambini. Conduce a bambini lasciati soli, un fattore significativo nell’aumento dell’alcolismo e nella tossicodipendenza infantile e nella violenza di bambini contro altri bambini ed altri effetti ovvi a livello di salute, istruzione, capacità di partecipare alla vita di una società democratica, finanche della capacità di sopravvivere, del declino dei quozienti intellettivi e dei risultati degli esami di ammissione all’università, ma si suppone che nessuno ci faccia caso. È colpa dei geni, ricordatelo. Nessuna di queste è una legge di natura, ma politiche sociali scelte in maniera cosciente a scopi ben precisi, precisamente arricchire le aziende ed impoverire il popolo.
Lo spirito anti-bambini ed anti-famiglia non è solo diretto contro i bambini di New York ma va molto più in là. Sottolineo la differenza con l’Europa – lì è diverso e per svariate ragioni. Una delle differenze è l’esistenza di un forte movimento sindacale e questo è un aspetto di una differenza più fondamentale, cioè il fatto che gli USA sono una società guidata dagli affari ad un livello senza precedenti, e come risultato il crudo interesse dei padroni prevale in una misura che non ha precedenti. Questi sono tra i meccanismi che consentono alla democrazia di funzionare formalmente, benché allo stato attuale gran parte della popolazione sia consumata da ciò che la stampa chiama “anti-politica”, intendendo l’odio per il governo, lo sdegno per i partiti politici e l’intero processo democratico. Anche questo è una grande vittoria per gli aristocratici nel senso jeffersoniano, cioè coloro che temono e non hanno fiducia nella popolazione e desiderano sottrarle tutto il potere e porlo nelle mani delle classi superiori. Oggi ciò significa nelle mani delle corporations transnazionali e degli stati e delle istituzioni quasi-governative che servono i loro interessi.
Un’altra vittoria è il fatto che la disillusione rampante è anti-politica. Un titolo del New York Times su questo tema suona così: “la rabbia ed il cinismo riempiono gli elettori e la speranza se ne va. L’umore diventa nero mentre sempre più persone perdono le loro illusioni nella politica”. L’edizione del magazine di domenica scorsa era dedicata all’anti-politica. Nota bene: non dedicata all’opposizione al potere ed all’autorità, alle forze facilmente identificabili che hanno le mani sulle leve del potere decisionale e che proiettano la loro ombra sulla società e sulla politica, come diceva Dewey. In un articolo del Times si cita l’opinione di un cittadino intervistato: «Sì, il congresso è marcio, ma questo accade perchè è nelle mani dei grandi affari, per forza è marcio». Questa è la verità che si suppone non si conosca, perché, qualunque cosa si pensi dei governi, è questa l’unica parte del sistema istituzionale cui si può prendere parte e che si può modificare o influenzare. Per legge ed in principio, non si può fare niente con le aziende di investimento o le multinazionali. Perciò è meglio che nessuno se ne renda conto. Bisogna essere anti-politici. Questa è un’altra vittoria.
L’osservazione di Dewey secondo cui la politica è l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici, ciò che incidentalmente era una tautologia anche per Adam Smith, è diventata oggi invisibile. La forza che proietta l’ombra è stata interamente rimossa dalle istituzioni ideologiche ed è tanto remota dalla coscienza che quello che ci resta è l’anti-politica. Questo è un altro colpo pesante inferto alla democrazia ed un regalo generoso a sistemi di potere assolutistici e non trasparenti che hanno raggiunto livelli che un Thomas Jefferson o John Dewey potevano a malapena immaginare. Le scelte che ci restano sono le solite. Possiamo decidere di essere democratici nel senso di Thomas Jefferson, oppure possiamo scegliere di essere aristocratici. La seconda strada è quella semplice, quella secondo cui le istituzioni sono pensate per remunerare e fruttare ricche ricompense data la concentrazione della ricchezza, del privilegio e del potere. L’altra strada, quella dei democratici e dei socialisti libertari, è fatta di lotte, spesso di sconfitte, ma anche di ricompense di un genere che non può essere neppure sognato da coloro che soccombono al nuovo spirito del tempo – accumulare ricchezze – dimenticandosi di tutto tranne che di sé. Il mondo d’oggi è molto lontano da quello di Thomas Jefferson. Le scelte che abbiamo, comunque, non sono cambiate significativamente.