La Sinistra tra vecchi errori e nuove speranze

Le indagini sulla composizione sociale del voto ci dicono che il 40% degli operai e il 47% dei giovani hanno votato per Grillo, mentre il Pd è più forte tra gli anziani e tra i dipendenti pubblici; quelle sui flussi elettorali ci spiegano che il 30% circa dei voti a Grillo vengono dalla sinistra radicale e il 32% dall’Idv e che c’è anche un pezzo consistente di voto del Pd che si è riversato sul M5S nell’ultima settimana.

Ovviamente poi c’è un’altra parte consistente di elettorato che viene dal centrodestra, quindi non voglio affermare che il Movimento sia la nuova casa della sinistra (anzi mi è del tutto chiaro che il suo obiettivo è cancellare la sinistra) voglio solo partire da fatto che, nella composizione trasversale del suo elettorato, vi sono milioni di elettori e elettrici del centrosinistra, sospinti su quei lidi dalla doppia crisi che oggi lo investe in pieno: crisi di rappresentanza “di classe” e crisi di visione. Avendo smarrito il suo ancoraggio sociale e ogni idea di mutamento radicale dell’esistente, tutta la sinistra, non solo quella “riformista” ma anche quella “radicale” che pure si è opposta alle politiche neoliberiste, è stata tout court assimilata al ceto politico, alla casta e appare appesa al nulla. È inutile girarci attorno: il voto al Movimento è stato, a sinistra, un voto contro questa classe dirigente, contro questa forma-partito, contro questo modo di fare politica. Il M5S ha fatto dell’indignazione contro la politica il moltiplicatore della rabbia di classe, della rivolta antifiscale, delle lotte contro la devastazione ambientale. Ha raccolto in sostanza anche una forte critica della democrazia rappresentativa, percepita sempre più come il luogo della casta, dei privilegi, degli imbrogli. quando invece avrebbe dovuto immaginare una proposte forte e strutturata di organizzazione della democrazia dal basso.

Correndo il rischio consapevole di essere tacciato di movimentismo provo a rispondere alla domanda su cosa sia successo in queste elezioni senza partire da una ristretta logica partitica e neppure dalla politica in senso stretto. Oggi, e tanto più dopo lo straordinario successo del M5S, si accomuna tutto dentro l’etichetta dell’antipolitica e tuttavia occorre invece distinguere i vari filoni parte dei quali sono confluiti in esso: il riflesso identitario leghista, il populismo berlusconiano, le pulsioni reazionarie antiparlamentari, ma anche l’indignazione contro la corruzione e la ribellione contro la dittatura dei mercati e il dominio del capitalismo finanziario. In tutto il mondo, dal movimento dei giovani cileni a Occupy Wall Street, all’insorgenza greca, emerge con forza il rifiuto di questo orizzonte e una richiesta forte di democrazia e di giustizia. Nei confronti del fenomeno M5S non hanno senso le scomuniche e gli anatemi, occorre invece guardare alla radici profonde del sommovimento che l’ha generato, per distinguere all’interno del suo elettorato e provare a riconquistare quel consenso che ha abbandonato la sinistra perché essa è stata in tutte le sue componenti o sorda alle sue domande o, anche laddove le aveva intese, inadeguata. Che senso ha una sinistra, un campo democratico, che non si misuri con la domanda di cambiamento che, in maniera così netta è emersa dal voto? Alla politica, come scrive il filosofo Umberto Galimberti, non spetta la “buona amministrazione” ma indicare “un orizzonte di senso”. Per questo penso che il primo problema è ricostruire un linguaggio, ritrovare le parole in grado di dare senso all’azione politica.

Nei mesi scorsi l’austerità come risposta alla crisi economica, sciaguratamente appoggiata dal centrosinistra, non si è abbattuta soltanto sulle fasce più povere e marginali, essa ha impoverito il ceto medio e colpito la classe operaia le cui lotte hanno assunto la forma tragica e disperata di cui il Sulcis è divenuto il simbolo. Il succedersi di suicidi di operai, artigiani, imprenditori ci mostra una dimensione che non è solo economica e sociale: è la psiche umana che non regge più la solitudine di una condizione in cui ci si sente indifesi, abbandonati, esposti alla legge del più forte. Questa umanità irriducibile alla dimensione capitalistica della vita, al dominio del dio denaro, alla logica del calcolo economico è la novità dirompente di questa crisi. Può esprimersi nel gesto estremo del suicidio, nella lotta che diviene rivolta disperata, ma può anche divenire il punto di partenza di una sinistra che torni a porre il problema della lotta contro l’ingiustizia come il suo punto fondante, o meglio ri-fondante. L’idea di rappresentare la maggioranza degli esclusi superando una visione economicista e classista dello sfruttamento.

Faccio un passo indietro. Nei mesi precedenti l’avvento del governo tecnico, un grande protagonismo civile aveva spezzato il consenso attorno al berlusconismo, spesso supplendo all’afasia dei partiti e proponendo nuove parole e nuovi paradigmi. Penso ai movimenti referendari, nei quali ha agito non una generica e indistinta società civile, né lo spontaneismo della rete. Ha agito una soggettività politica diffusa, radicata nei territori e perciò forte anche nella piazza virtuale, che fa politica in forme nuove e tutte da studiare unendo competenze, attivismo, spirito civico. Non mi apparve allora un fenomeno transitorio, né mi pare che sia scomparso con l’avvento dei tecnici, bensì una domanda di nuova politica dal basso, una richiesta di partecipazione alle decisioni, di un nuovo rapporto con le istituzioni, di una democrazia “presa sul serio” . Una domanda nient’affatto populista, perché viene da una cittadinanza matura e consapevole, di comitati che hanno saputo raccogliere energie intellettuali, scientifiche, che hanno letto e diffuso le correnti più moderne e avanzate del pensiero economico e ambientalista. Tutto questo è stato ignorato, tanto dal centrosinistra “moderato”, catturato nella sciagurata stagione del montismo e del tecnicismo, quanto dalla sinistra più “radicale”, che ha proposto a questi movimenti l’imbuto stretto delle vecchie forme partito e delle vecchie ideologie. Più facile per essi canalizzarsi nell’invaso più largo del M5S, che non ha neanch’esso una proposta ma appare almeno un luogo dove queste domande hanno cittadinanza.

La risposta del M5S è un miscuglio di critica della democrazia delegata, pulsioni reazionarie, visioni palingenetiche (consiglio la lettura del libro di Fo, Casaleggio e Grillo) a metà tra Toni Negri e Scientology, sommando elementi di critica radicale alla democrazia rappresentativa che vanno da Rousseau al ’68, con suggestioni apocalittiche. Da qui, dunque, non verrà una prospettiva perché la sua forza elettorale sta nel fungere da catalizzatore di tutte queste correnti e cesserebbe qualora dovesse tradursi in un preciso programma di cambiamento. Si illuderebbe tuttavia chi immaginasse che l’onda della protesta sia già in fase calante e si mettesse nella comoda posizione di attesa, sperando che, alla fine, le nostre razionali argomentazioni prevarranno, magari puntando sulle prime crepe che già si aprono. In questo senso le risposte tattiche giuste e ben fatte, come l’elezione di Laura Boldrini e Piero Grasso, rischiano di illudere.

E, in questo momento, di tutto abbiamo bisogno tranne che di risposte illusorie. Chi pensa di avere nel suo dna gli strumenti per parlare ai mondi che si sono rivolti a Grillo, si chiami sinistra radicale comunque collocata o radicalismo democratico, o nuovo movimentismo deve ripartire da questa domanda : come mai, né la parte che si è ritrovata in Rivoluzione Civile, né quella che si è alleata con il Pd, è riuscita a intercettare la più grande critica di massa dopo il ’68 al dominio del turbocapitalismo e allo svuotamento della democrazia rappresentativa?

La sconfitta bruciante di Rivoluzione Civile è tutta qua: se tu vedi bene, come avevamo visto, che per arginare la gigantesca devastazione sociale in atto occorre rovesciare le politiche di austerità, ma ti presenti come il taxi di vecchi partitini ideologici e d’apparato che vogliono tornare in parlamento, il tuo messaggio è svuotato. Per parafrasare Mc Luhan: il mezzo è il messaggio.

Non abbiamo compreso fino in fondo che la montante rabbia sociale avrebbe preso di mira l’obiettivo più vicino: una politica sorda, cieca e senza voce, di cui siamo stati considerati parte.

Siamo stati avvertiti non come l’embrione di una nuova risposta, ma come l’estrema propaggine di un mondo antico che sventola le sue gloriose ma logore bandiere in un mondo sconosciuto. In campagna elettorale ho ritrovato la generosità, l’onestà, la lealtà di tantissimi militanti, il cui linguaggio però era mille miglia distante da quello dei milioni di cittadini che magari avevano incontrato nelle lotte. Non basta partecipare ai movimenti se ciò non muta il modo stesso di essere delle forme politiche organizzate. Si è verificato un esito paradossale: siamo apparsi insieme troppo di estrema sinistra e troppo moderati: estremisti dal punto di vista ideologico perché abbiamo riproposto i vecchi apparati, e moderati perché il nostro linguaggio non è riuscito a parlare alla rabbia di un paese in sofferenza.

Da dove ripartire, allora? A me pare si pongano tre grandi questioni: il modello di sviluppo, la democrazia, la forma partito.

Detto che, ovviamente, il primo punto è rovesciare le politiche dell’austerità con misure verso i ceti più colpiti, occorre ragionare su un nuovo modello di sviluppo che non è un’esigenza astratta, un ideologismo, bensì una necessità concreta. Può essere questo un modello di sviluppo alternativo alla logica dei sacrifici che gravano sempre sugli stessi? Può maturare qui l’idea di un intervento pubblico sobrio ma in grado di sostenere un’idea di sviluppo fondata non sulla crescita quantitativa? Aria, acqua, energia, mobilità, alimentazione, istruzione: ognuna di queste parole se interpretata attraverso il concetto di beni comuni può essere volano di risparmi e dunque di investimenti, di sviluppo, di nuovo lavoro che sia anche un lavoro nuovo.

Ma il paradigma dei beni comuni investe anche una nuova idea di etica pubblica che non può nascere soltanto dalle aule giudiziarie, ma da un ritrovato senso di appartenenza alla polis, dal rispetto delle diversità, dall’affermazione dell’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, dal rifiuto della logica della prevaricazione e del privilegio, da un rifiuto radicale della logica del più forte, da un’inversione semantica che sappia enucleare la vera forza che c’è nelle ragioni dei più deboli, nel loro diritto a vivere un’umanità piena come limite invalicabile del criterio pur necessario del merito.

Una nuova moralità pubblica che si fondi sulla lotta ai conflitti d’interesse, alla corruzione, alle mafie, all’evasione fiscale non è astratto moralismo né giustizialismo, bensì la prima leva per liberare risorse e produrre sviluppo.

Ma la questione non riguarda soltanto la sinistra radicale e neppure soltanto la sinistra nel suo insieme. Ciò che rende convulsa e così densa di pericoli, ma anche di opportunità, la crisi italiana è che in essa confluiscono crisi sociale, crisi morale, crisi delle istituzioni. I partiti, tutti i partiti, sono zombie, perché nessuno di essi ha capito che il primo passo per venire incontro alla rabbiosa domanda di cambiamento del paese era azzerare se stessi, i propri gruppi dirigenti, il proprio potere, per rilegittimarsi dentro la società.

Non è solo la forma partito a essere morta: quel dato sul voto operaio a Grillo come ancor prima alla Lega, ci dice che non esiste alcun legame automatico tra condizione di classe e coscienza di classe, e ciò ci condurrebbe al tema della effettiva rappresentatività dei sindacati, tema che Grillo evoca, sia pure in modo becero, e al quale non si può rispondere solo con gli anatemi.

Ripensare la democrazia, nelle sue istituzioni rappresentative, così come nei suoi corpi intermedi, è l’unico modo serio per rispondere allo Tsunami. Non si tratta di cose astratte, ma di proposte concrete: abolizione del finanziamento pubblico e ricorso a forme di finanziamento tipo l’otto per mille; attuazione dell’articolo 49 della costituzione sulla democrazia nei partiti; forme di partecipazione democratica (referendum, consultazioni on line, strutturazione della democrazia dal basso a cominciare dai comuni); legge sulla rappresentanza sindacale.

Non è più possibile ragionare in termini sempre ristretti e settari, e questo vale non solo per le forze più piccole ma anche per quelle più grandi: in queste elezioni è stata sconfitta tanto una logica iperminoritaria, quanto una immotivata arroganza maggioritaria. Una decisa inversione di rotta può avvenire solo in un campo largo del cambiamento, che si strutturi in forme democratiche di partecipazione, anche perché la radicalità di cui abbiamo bisogno oggi non è affatto ideologica, dal momento che gli elettori ci hanno dimostrato di essere molto più radicali dei partiti e dei partitini.

Stare fermi vuol dire morire pensando di essere ancora vivi.

Non illudiamoci quindi che il nuovo nasca da solo. Un quindicennio di torsione populista della rappresentanza politica, di introiezione di modelli culturali fondati sull’egoismo non si supera senza un lungo e duro lavoro di ricostruzione. I partiti del centrosinistra, per come sono strutturati oggi sono totalmente inadeguati, prigionieri di vecchie logiche di appartenenza e dominati dalle oligarchie burocratiche.

Per rispondere alla critica alla politica che viene dalla società e dai movimenti, si dovrebbe provare a considerare anche la politica “un bene comune”. Si è manifestata una nuova forma di attivismo civico che domanda alla politica di farsi “buona politica”. Due passaggi sembrano ineludibili: a) restituire ai cittadini la scelta sulla rappresentanza politica (riforma elettorale); b) rompere il dominio delle oligarchie burocratiche sui partiti e provare a immaginare una nuova forma della soggettività politica plurale, federata, che incoraggi e organizzi la partecipazione dei cittadini. Possiamo provare a immaginare un “vero” Partito Democratico, quello che ancora non c’è, come rottura non solo sul piano ideologico ma anche della forma partito del vecchio schema di derivazione leninista, verticale e centralizzato? Al suo posto una rete di cittadini attivi, chiamati a dire la loro attraverso le primarie, magari sul web (o anche sul web) non una tantum per scegliere il leader, ma anche sul programma. Lo scioglimento dei dissensi, in un siffatto partito, necessariamente plurale, non verrebbe affidato alla mediazione tra gli oligarchi ma alla partecipazione dei cittadini, rendendo così più forte lo spirito di coesione.

Dopo le elezioni il quadro si è rimesso in movimento e la situazione politica sboccherà di qui a poco in nuove elezioni. Nel centrosinistra si è avviata una riflessione sugli errori commessi, l’egemonia moderata sembra mostrare la corda. Lo stesso Renzi, l’unico che aveva compreso la necessità di una rottura radicale con le oligarchie di partito, sembra ammettere che non sarà davvero competitivo se non capirà il segnale complessivo del voto e la critica di massa contro le logiche devastanti dell’austerità. La rottamazione deve investire non solo i vecchi dirigenti, ma anche le vecchie idee. Un mutamento radicale della forma partito non può che accompagnarsi a una rimessa in discussione dei paradigmi liberisti che producono diseguaglianze crescenti e a un inveramento della democrazia attraverso nuove forme di partecipazione dei cittadini. E su questo mi pare che sia molto interessante anche la posizione del ministro Barca, che, a cavallo tra Pd e Sel, sembra volersi proporre come “federatore” di un nuovo partito che raccolga tutte le energie sparse.

Per quanto riguarda Rivoluzione Civile, mi piace usare un detto evangelico: “Se il chicco di frumento muore allora darà gran frutto”. Voglio dire che RC è morta nella forma che abbiamo conosciuto, cartello elettorale e somma di vecchi partiti e nuovi movimenti, e va sepolta senza rimpianti. E’ invece viva e direi drammaticamente urgente, la necessità da cui nasceva: dare vita a una nuova soggettività politica che intercettasse la richiesta del cambiamento, coniugando legalità e giustizia sociale, proponendo a tutto il centrosinistra un confronto per uscire dalle logiche suicide dell’austerità, chiamando i cittadini a un impegno diretto, per fare dell’indignazione la leva per il cambiamento.

Di un simile soggetto oggi c’è bisogno ancor più di ieri, per tenere aperta la riflessione nel centrosinistra e condurla verso un esito positivo che possa riconquistare il consenso della maggioranza dei cittadini. Un soggetto nel quale possano confluire tutti coloro che avvertono come tragicamente inadeguata la dimensione dei partiti e la logica dell’appartenenza.

Non c’è alcuno spazio per un nuovo partitino che sorga dalle ceneri di Rivoluzione Civile, c’è invece uno spazio enorme per un movimento politico aperto e plurale, leggerissimo nelle sue forme organizzative che sia una fucina di azione e di idee per il cambiamento. Il voto ci ha detto con chiarezza che non c’è alcuno spazio né per logiche ultraminoritarie né per chi vuole tornare ai suoi vecchi vessilli senza accorgersi che nel frattempo essi si sono trasformati nell’opposto di quel che volevano rappresentare, avendo tradito i propri valori fondanti. Molti elettori che si sono rifugiati nell’astensione e nel voto al M5S chiedono risposte forti di cambiamento, e queste non possono che venire da un nuovo campo democratico totalmente rinnovato nelle idee e nelle persone. Immagino un movimento che abiti il Limes tra quel mondo e questo. Percorriamo quel confine senza paura, come dice Papa Francesco.

Carmine Fotia

(sito di Rivoluzione Civile, 2/4/2013)

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