Calamandrei: un rebus dell’antifascismo…

di GIANCARLO IACCHINI ♦

Piero Calamandrei (1889-1956) è uno dei più importanti “padri costituenti” e grande difensore e divulgatore della nostra Costituzione; esponente di Giustizia e Libertà e fondatore del Partito d’Azione; e verrebbe da dire, di getto, indiscusso alfiere dell’antifascismo se non fosse che proprio di questo si è molto… discusso, anche con accenti fortemente polemici. Perché? Perché il celebre giurista fiorentino era così bravo e autorevole da essere spesso interpellato dai ministri di Mussolini, fino a collaborare attivamente alla stesura del Codice di Procedura Civile uscito nel 1942, quando il fascismo (escludendo la tremenda deriva della Repubblica Sociale ormai alle porte) aveva già mostrato il peggio di sé (dalle leggi razziali alla disastrosa entrata in guerra a fianco della Germania nazista, dopo 17 anni di aperta dittatura) e paradossalmente nello stesso periodo in cui Calamandrei, che a suo tempo aveva tranquillamente firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce contro il Manifesto fascista di Giovanni Gentile, si stava avvicinando ai gruppi più attivi nella lotta contro il regime, in perfetta sintonia con oppositori a prova di bomba come Ernesto Rossi e i fratelli Rosselli.

Un’ambiguità sorprendente, che gli è stata ovviamente rimproverata da molti intellettuali che nello stesso periodo erano in carcere, al confino o in esilio. Di più: nel 1931 Calamandrei, stimato professore universitario, firma il famigerato giuramento di fedeltà al fascismo: «Con l’animo straziato – spiegò in seguito – ma per mantenere quella cattedra che sentivo come il mio unico posto di combattimento» (solo in 12 rifiutarono la firma, e persero immediatamente il loro incarico all’Università). Non ci piacciono i processi, sia ben chiaro, ma cercare di capire senza imbarazzati “veli pietosi” ci sembra doveroso e per nulla irrispettoso: la spiegazione più convincente di questo inquietante (e sconcertante) equilibrismo sulla fune sta da un lato nella fedeltà allo Stato e ai suoi organismi giuridici – ricordiamo che nel totalitarismo “imperfetto” di Mussolini l’istituzione monarchica (compreso lo Statuto Albertino) non fu mai soppressa, il che rese possibile, nel luglio del 1943, il “licenziamento” del duce da parte del re Vittorio Emanuele III – e dall’altro nel tentativo, più volte rivendicato dallo stesso Calamandrei, di “salvare il salvabile” e “limitare i danni”, con la speranza di evitare la completa degenerazione filo-nazista della magistratura e dei Codici italiani. In ogni caso, la perplessità rimane tutta, aggravata dall’imbarazzante sfogo attribuito da testimoni oculari a Mussolini, che urlò ai suoi collaboratori: «Ma come siamo messi? È mai possibile che il miglior giurista che abbiamo in Italia, il più “fascista” di tutti, sia un antifascista dichiarato come Calamandrei?!?». (Pare che Grandi lo riferì all’interessato e lui rispose piccato, scatenando un battibecco perfino simpatico: «Come fascista? Fascista in che senso?»; «Calma, calma… in senso buono!»; «Ambè!»).

In ogni caso, non c’è dubbio che nei lavori dell’Assemblea costituente si dispieghi il più autentico pensiero democratico di Piero Calamandrei, che partecipa alla stesura di diversi articoli della Carta (a partire dall’art. 3), vincendo molte battaglie teoriche ma perdendo quella sull’art. 7, in cui non voleva inserire i Patti Lateranensi, e sulla repubblica presidenziale, che avrebbe preferito a quella parlamentare per affidare ai cittadini un maggior potere decisionale nella scelta dei propri governanti. Famosi sono inoltre i versi in cui irride la provocatoria richiesta di un famoso criminale nazista («Lo avrai, camerata Kesselring, il monumento che pretendi da noi italiani, ma con che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi… Col silenzio dei torturati più duro d’ogni macigno… con la roccia di questo patto giurato fra uomini liberi decisi a riscattare la vergogna e il terrore… popolo serrato intorno al monumento che si chiama, ora e sempre, RESISTENZA») e il commovente discorso agli studenti di Milano sulla Costituzione come «programma, ideale, speranza, impegno, lavoro da compiere», progetto ancora incompleto da attuare integralmente: «Questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione!».

Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, restò in parlamento in vari gruppi e movimenti liberalsocialisti (come Autonomia socialista, Unità Popolare, Azione Socialista Giustizia e Libertà), impegnandosi per la creazione della Corte costituzionale (obbiettivo raggiunto un anno prima della morte (nel 1955) e contro la “legge truffa” con cui la Democrazia Cristiana voleva blindare la sua traballante maggioranza. Nonostante l’avvicinamento al Partito socialdemocratico dell’atlantista Giuseppe Saragat, restò sempre fieramente contrario all’ingresso ed alla permanenza dell’Italia nella Nato.

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