La società che vogliamo

di Giancarlo Iacchini e Valentina Pennacchini (*)

In un mondo politico sempre più desolante, asfittico e privo di ideali – alcuni dei quali peraltro bocciati irreversibilmente dalla storia ed altri rivelatisi velleitari e illusori – noi restiamo saldamente ancorati al binomio sempre (più) attuale di giustizia e libertà, secondo l’insegnamento dei nostri grandi maestri (da Gobetti a Rosselli, da Gramsci a Pertini, da Basso a Capitini). Una dialettica, quella filosofica tra i due valori fondamentali (e non solo del liberalsocialismo italiano: vedi gli analoghi princìpi di giustizia teorizzati dall’americano John Rawls), che si traduce molto concretamente in una fusione radicalmente democratica tra stato e mercato, intervento pubblico e iniziativa privata, rivolta non genericamente al bene “del popolo” ma di ogni singolo cittadino, la cui libertà sostanziale non può che significare potere reale e partecipazione effettiva al processo decisionale della politica (e dell’economia), in una corrispondente dialettica tra diritti e doveri, coincidenti questi ultimi con gli uguali diritti degli altri.

In questa simbiosi e reciproco scambio tra pubblico e privato, tra sociale e personale, la società giusta che noi immaginiamo non si limita ad aggiungere “più stato” ad un mercato che segua le sue autonome leggi capitalistiche – le quali conducono non a un mercato “libero” bensì, al contrario, ad un sistema economico dominato e soffocato da monopoli e posizioni di assurdo privilegio, in cui la grande maggioranza della popolazione è davvero… privata della tanto celebrata “proprietà privata”, come Marx aveva lucidamente previsto nel Manifesto – ma rende possibile ai due poli apparentemente opposti della scienza politica un vantaggio reciproco: cioè uno stato che garantisca una reale libertà del mercato con pari opportunità per tutti, ed un mercato che alimenti la ricchezza dell’intervento statale con funzione comunitaria e redistributiva, cioè il Welfare State o “stato sociale”. In tal senso, facciamo nostre le migliori esperienze della socialdemocrazia europea (ricordando ad esempio la coraggiosa azione di governo di Olof Palme in Svezia) senza contrapporre una politica veramente riformatrice (che nulla ha a che vedere col miope “riformismo” italiano) a quella carica rivoluzionaria del marxismo umanistico e libertario che affascinava anche un liberale come Piero Gobetti, convinto che i nodi dell’ingiustizia sociale andassero tagliati anche in modo radicale per far progredire la storia e la società, verso la realizzazione ed emancipazione delle persone.

E qui appare chiaro che il nostro “radicalismo” non deve confondersi con un estremismo ideologico e parolaio. Nel caso di situazioni emergenziali che possano compromettere la libertà e la democrazia, perfino un liberale classico come Popper non vedeva contraddizione tra la non-violenza come principio “normale” e una lotta armata per abbattere una dittatura. Così come non è incoerente per un partito socialista contribuire alla gestione di una democrazia liberale, come fece il PSI di Nenni e Lombardi durante il centrosinistra (quello vero) nella prima repubblica italiana nata dalla Resistenza.

La celebre affermazione di Sandro Pertini sul dovere morale di rifiutare “anche le più giuste riforme sociali” qualora comportino la rinuncia alla libertà non va intesa come un primato del presunto principio “liberale” su quello “socialista”, ma come un richiamo alla stretta e inscindibile unità dei due princìpi, che isolati l’uno dall’altro non stanno in piedi (ed è questo il vero senso della loro dialettica): non è affatto libera una società ingiusta e piena di disuguaglianze, perché una tale situazione priva della libertà la maggior parte dei cittadini! Come non è giusta una società dove il principio di libertà non sia ordinato ed equilibrato dalle leggi, nel senso della libertà di tutti, che cioè non diventi l’arbitrio e il privilegio di una ristretta élite come accade anche oggi in troppi stati sulla carta democratici, in cui milioni di cittadini non hanno la possibilità di partecipare alla vita politica (avendo ben altre esigenze materiali a cui pensare) e, a dirla tutta, nemmeno l’elementare facoltà “liberale” di scegliere i propri governanti! Non esistono insomma diritti senza doveri, e i secondi non hanno senso senza i primi: pertanto non può esistere un vero liberalismo che non sia socialista, né un vero socialismo che non sia liberale, perché il benessere della persona e quello della comunità in cui vive non possono essere disgiunti senza danneggiare sia l’uno che l’altro.
Concludendo, secondo il ben poco noto pensiero di John Rawls, che ha avuto il merito di fissare i pilastri fondamentali della “società giusta” (ma il demerito, scherzando ma non troppo, di esporli in un ostico tomo di 500 pagine), perseguire libertà&giustizia significa lottare contemporaneamente per tre cose:

1) la libertà eguale (cioè per tutti e per ciascuno, e non per pochi privilegiati della classe dominante);

2) le differenze solidali (diversità e ineguaglianze che nascono per forza di cose dalla libertà ma anche dalla vita e dal caso, che però sono giustificabili solo se la fortuna di alcuni viene “orientata” dallo Stato a beneficio dei “meno avvantaggiati”, ad esempio con una tassazione progressiva);

3) le pari opportunità (perché se esistono posizioni di vantaggio, queste devono essere aperte e non classiste, accessibili a tutti, il che è molto più stimolante dell’appiattimento e dell’omologazione).

Tutto questo, in estrema sintesi, è il radicalsocialismo in cui crediamo.

(*) docenti di Storia e Filosofia (Liceo Classico di Fano)

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