Il socialismo di Lelio Basso

«Nella società italiana ci sono forti tendenze all’autoritarismo. La nostra classe dirigente è troppo arretrata politicamente, troppo paurosa di affrontare il libero confronto democratico, e in fondo sempre nostalgica di un regime autoritario».

«Antifascismo oggi è il rifiuto di cancellare quelle che sono state le conquiste fondamentali della Resistenza, il respingere i tentativi di ributtare l’Italia indietro».

«Ho l’impressione che ci sia una notevole chiusura, una tendenza alla professionalizzazione della politica, una visione limitata al mondo politico, quindi un distacco dalla realtà e dai problemi veri del Paese. Si fa ormai tutto ai vertici, in cerchie sempre più ristrette. Ma la politica è essenzialmente partecipazione alla vita del Paese. Partecipazione nel senso letterale della parola».

«La sottocommissione dell’Assemblea Costituente in cui ho lavorato è quella che ha redatto la prima parte della Costituzione, cioè i principi generali. Sul resto, cioè sull’organizzazione dello Stato, sulle norme e sugli strumenti del suo funzionamento, io già allora mi trovai in disaccordo. Io ero per un rinnovamento profondo; prevalse invece il principio della continuità dello Stato. È venuta fuori così una Costituzione molto avanzata per quel che riguarda i principi generali e molto conservatrice per quel che riguarda la struttura dello Stato».

«Il potere non è quello scritto sulla carta: è una struttura estremamente complessa, che agisce per meccanismi, rapporti, equilibri difficili da afferrare. Chi comanda sul serio non sono certo i ministri. Oggi di fatto l’Italia (e non solo l’Italia) è governata da un’oligarchia ristretta di cui fanno parte l’alta finanza, l’alta burocrazia, alcuni strati superiori dei partiti, le alte gerarchie ecclesiastiche, i grandi tecnocrati».

«Ci vuole un Parlamento tutto diverso dall’attuale. E tanto per cominciare, con una Camera unica. Due Camere che fanno la stessa cosa mi pare un’idiozia».

«È pericoloso intendere la democrazia in senso puramente formale: la maggioranza comanda, la minoranza obbedisce. Perché il governo è fatto dalla maggioranza e succede che la maggioranza che, teoricamente, potrebbe controllarlo, non lo fa perché è sempre solidale col governo; mentre la minoranza, che vorrebbe, non può perché non ha gli strumenti, e a questo punto la democrazia è una burletta».

«Progredire, far avanzare la democrazia, avere più libertà significa ridimensionare l’apparato centrale; rafforzarlo significa andare indietro».

«Ecco, se dopo cinquant’anni di milizia politica io mi trovo fuori dai partiti, è per un’insoddisfazione al cui fondo c’è l’idea che se uno vuol cambiare questa società non può limitarsi a far politica alla Camera, nei comitati centrali o nei comizi. Deve cercare di cambiare mentalità, di scoprire nuovi valori culturali e politici».

«Quando dico rivoluzione, io intendo una grande trasformazione sociale, economica, culturale e politica che può avvenire anche senza violenza. Credo che la violenza non sia indispensabile in una rivoluzione socialista. Tutto dipende dalle condizioni storiche in cui la rivoluzione matura. Se crediamo, come io credo, a una civiltà diversa da quella in cui viviamo, non possiamo non renderci conto che dobbiamo prepararla con un lavoro politico e un lavoro culturale. L’impegno politico è inseparabile dall’impegno culturale: sono due momenti inscindibili. Se no, non si cambia veramente nulla. E invece i partiti della sinistra si sono lasciati prendere la mano dai problemi dell’immediato, dal contingente, e hanno dimenticato, o meglio, hanno sottovalutato i valori culturali più profondi. Penso che la ricerca culturale sia un modo capitale di far politica. lo del resto ho sempre avuto un piede nella politica e uno nella cultura. Ed è per questo che ho fondato a Roma un istituto di studi storici e sociali».

«La sinistra italiana è stata bravissima nelle lotte parlamentari. Senza però rendersi conto che il Parlamento è dentro questo sistema. Non è stata invece capace di far emergere dal basso le iniziative, di provocare e far sviluppare la creatività, l’originalità delle classi popolari. Due sono, a mio giudizio, le cause principali. Da un lato la logica del sistema e la sua capacità di integrazione e quindi anche la sua capacità di far accettare i propri modelli culturali; dall’altro, la tendenza accentratrice degli stessi partiti di sinistra che ha contribuito a mortificare e a soffocare la capacità creativa di base. Il movimento operaio è riuscito a inventare strutture, organismi, strumenti di lotta e di cultura, come le cooperative, le camere del lavoro, i sindacati. Chi aveva vent’anni mezzo secolo fa, come me, ricorda il nascere continuo di iniziative che corrispondevano al bisogno delle masse di esprimere se stesse».

«La socialdemocrazia non ha saputo creare nulla di alternativo al sistema: è rimasta sempre impigliata nelle sue maglie. Tutti i partiti socialdemocratici europei sono stati al governo e tutti sempre, al momento di assumerne le redini, hanno dichiarato che non volevano cambiare il sistema: si presentavano, anzi, come i suoi più intelligenti difensori».

«Il consumismo non è più un fenomeno esclusivo delle classi abbienti. È ormai una tendenza di massa, identica, o perlomeno simile, nello spirito, anche se molto diversa quantitativamente (è chiaro che un industriale consuma più di un suo operaio). Spesso, discutendo con giovani amici che fanno gli ultrarivoluzionari, li sorprendo, nel vivere quotidiano, in comportamenti e abitudini che corrispondono ai modelli borghesi, alle regole della società opulenta, anche se forse non se ne rendono conto».

«E veniamo ai giovani. Il mio giudizio è che nella protesta, nella contestazione giovanile l’importante era quello che veniva negato. I giovani rifiutavano il principio d’autorità, negavano l’antica logica autoritaria: questo è giusto perché l’ha detto il padre, perché l’ha detto il vescovo, perché l’ha detto il colonnello, perché l’ha detto il professore, perché l’ha detto il presidente della Repubblica… Questo rifiuto d’accettare la verità soltanto perché proviene da una certa autorità è per me un fatto d’importanza capitale, di cui non apprezziamo neanche oggi tutto il valore, tutta l’energia che può sprigionare. Ma quando dalla protesta i giovani sono passati alle proposte, organizzandosi in gruppi, circoli, movimenti, non hanno fatto altro che impadronirsi di formule vecchie, superate, logore, e riverniciarle, ma senza confrontarle con la realtà. Insomma, attraverso la grande breccia che avevano aperto nelle strutture della vecchia società autoritaria, è passato ben poco».

«A costo di essere accusato di schematismo, io credo che il pensiero di Marx sia fondamentale per il socialismo. Marx ci insegna che fare la rivoluzione è un processo lungo, che può durare anche cent’anni; che la rivoluzione non si fa perché se ne ha voglia, e soprattutto non si fa gridando “rivoluzione! rivoluzione!”, ma la si fa studiando i processi obiettivi di sviluppo della società».

«Il fatto è che spesso i leader rivoluzionari, quando prendono decisioni imposte dal momento, devono presentarle alle masse come valide universalmente; cioè se si deve fare un passo a sinistra, si tenterà di convincere tutti che a destra c’è il baratro dell’inferno; se, dopo, il passo si dovrà fare a destra, il baratro dell’inferno sarà spostato sulla sinistra. Intendiamoci, io posso giudicare queste decisioni, una per una, giuste e tempestive. Ma farei un grosso errore se le considerassi valide eternamente e universalmente, sempre e per tutti».

«Il Psiup è stata la mia ultima speranza. Nel discorso che pronunciai alla Camera nel momento della scissione del Psi, quando la contestazione non era ancora cominciata, dissi che stavano maturando nel mondo fatti di enorme importanza, che stavano venendo alla ribalta generazioni nuove e dirompenti che avrebbero posto problemi nuovi di potere, di partecipazione, ai quali bisognava saper dare delle risposte. In questa prospettiva, come risposta a questi problemi, il centrosinistra era ridicolo: i socialisti avevano ben altro da fare. Ma purtroppo nemmeno il Psiup ha saputo dare una risposta globale al problema. Ha risposto in termini di politica, di governo, di Parlamento, di elezioni, ma non di civiltà».

«La politica dei favori e delle amicizie mi ripugnava. Per la qual ragione la mia solitudine s’è fatta totale: sono solo sul piano delle idee, nel profondo, e sono solo nell’attività quotidiana, senza amici costretti a essermi fedeli per ragioni governative o sottogovernative. Mi sono sempre sforzato di far accettare metodi più civili di quelli della carriera e della corruzione, e nei partiti sono stato sempre battuto, mi sono trovato sempre in minoranza. Ho preso a 18 anni la mia prima tessera socialista, adesso a 69 sono fuori da tutto. Potrei dire cinquant’anni perduti. Ma le dimissioni le ho date dai partiti, non dalle mie idee: a cui resto attaccato tenacemente».

«L’Italia è un paese dove cambiare le cose è molto difficile, dove c’è una tendenza indomita al pasticcio, dove non c’è un retroterra culturale, dove tutto sembra incrostato d’un indifferentismo impenetrabile. D’accordo. E io devo ammettere di non essere riuscito a realizzare neanche una piccola parte degli scopi che m’ero prefissi, delle aspirazioni che avevo da giovane militante socialista. Su tutto questo d’accordo. Ma guai se un uomo di sinistra si rassegna. A sinistra bisogna battersi senza stancarsi, vigilare e battersi ininterrottamente. Anche se si sa che a uno sforzo cento corrisponderà un risultato dieci o cinque o magari uno. Molti anni fa fui colpito da un motto di Guglielmo il Taciturno, che m’è rimasto impresso per tutta la vita e che in una certa misura ho cercato di fare mio: “Non occorre sperare per intraprendere, non occorre riuscire per perseverare”».

«Sarà svedese, ma non è socialismo. Il socialismo presuppone la proprietà collettiva dei mezzi di produzione: in Svezia ci sono industriali e operai, agrari e contadini. Il sistema svedese è lo Stato assistenziale: molto avanzato e molto efficiente. Ma manca l’elemento che, per me, è essenziale perché una società possa dirsi socialista: l’autogoverno, che richiede la soppressione della divisione in classi. L’autogoverno è la collettività che decide il proprio futuro (in Svezia, e in Italia, è un’oligarchia che decide per tutti). Come si realizza? Una ricetta non c’è. Direi attraverso una rete estremamente complessa di organismi, di istituzioni, di canali che offrano il massimo di partecipazione reale alle masse. Una ricetta bell’e fatta non c’è perché il socialismo dev’essere il risultato di una sperimentazione collettiva, deve realizzare tutta la capacità creatrice delle masse. E quel che le masse possono creare non è prevedibile a tavolino. Socializzare i mezzi di produzione non basta. La socializzazione è un mezzo. Il fine è la liberazione dell’uomo. Insomma si avrà tanto più socialismo, se così posso dire, quanto più si sarà fatto dell’uomo il gestore cosciente della sua vita e il corresponsabile della vita collettiva. Se il socialismo non cresce con lo sviluppo della coscienza delle masse non è socialismo, non è liberante. Credo che la società e l’uomo debbano cambiare insieme. Che nello sforzo di cambiare la società si deve cambiare anche l’uomo. È questa la rivoluzione. O è la trasformazione dell’uomo, dei rapporti umani, o non è niente. Io credo profondamente nella nascita di un uomo nuovo e diverso. È la mia utopia».

Lelio Basso

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