Gramsci e il “fordismo”

di GIANCARLO IACCHINI

«Tutta l’attività industriale di Henry Ford si può studiare da questo punto di vista: una lotta continua, incessante per sfuggire alla legge della caduta del saggio di profitto» (Quaderni, 1281-2). Così Antonio Gramsci sintetizza la quintessenza del fordismo, ancorando con ciò la propria analisi sociologica ed anche psicologica dell’importante fenomeno ai cardini economici del sistema teorico di Karl Marx, al nucleo strutturale della critica marxiana dell’economia politica.

Una forma di ortodossia ben poco… conformistica, se si considera che proprio l’abbandono della teoria del valore e con essa della legge del profitto decrescente aveva caratterizzato il marxismo secondinternazionalista di inizio secolo, ansioso di presentarsi come la più esaustiva codificazione ufficiale della lezione marxiana. Dal finto “eretico” Eduard Bernstein fino al “papa rosso” Karl Kautsky, la nuova “ortodossia” si consolida sulle ceneri della legge marxiana della caduta del saggio del profitto enucleata nel Capitale. Eppure il monito di Marx era stato quanto mai esplicito: «Questa è, sotto ogni aspetto, la legge più importante della moderna economia politica, e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. È una legge che, ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tantomeno espressa consapevolmente» (Grundrisse, II, p. 460). E ancora: «Data la grande importanza che questa legge ha per la produzione capitalistica, essa costituisce il mistero a svelare il quale tutta l’economia politica si è adoperata dal tempo di Adam Smith» (Capitale, III, p. 261).

Quanto più chiaro è dunque il pensiero di Marx, tanto più sorprendente appare la vera e propria “rimozione” che la legge subisce ad opera del marxismo della seconda Internazionale. E risulta ancor più sorprendente il fatto che questo stravolgimento dell’economia politica marxiana, in un punto così essenziale, sia sfuggito anche ai critici più severi e irriducibili della nuova “ortodossia”: è il caso di Rosa Luxemburg, il cui sforzo appassionato di fra valere la radicalità delle crisi reali di contro all’armonicismo ormai imperante nella teoria socialdemocratica, non va oltre la riproposizione in forma riveduta e corretta delle vecchie teorie “sottoconsumistiche” già confutate da Marx. Teorie che ricercano la causa primaria delle crisi nella sfera della circolazione e dello scambio, anziché nell’ambito della produzione di valore e plusvalore.

Tutto il dibattito in seno al marxismo austro-tedesco dell’epoca, a dispetto della diversità e spesso contraddittorietà delle posizioni in cui si articola, condivide nella sostanza questa “rimozione” della questione del valore e delle leggi che ne derivano. Pochi e isolati, nel primo trentennio del secolo (ed anche oltre), i tentativi di ristabilire l’autentica impostazione di Marx, aggiornandola in base ai mutamenti nel frattempo intercorsi all’interno del modo di produzione capitalistico. Fu Henryk Grossmann, nel 1928, a sostenere il tentativo più organico in tal senso con un’opera ponderosa ma di straordinario interesse, La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalistico. Antonio Gramsci, che apprese in carcere dell’esistenza di questo libro, fu tra i primi ad intuire il significato e il valore dello sforzo operato da Grossmann, ed affidò ad una pagina dei Quaderni (1279) alcune annotazioni in proposito.

Non c’è dubbio che il filosofo italiano, pur nella diversità degli interessi culturali specifici, si muovesse nella stessa direzione di fondo, fosse cioè impegnato in un tentativo complementare a quello dell’economista polacco; il tentativo di recuperare e corroborare la teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto attraverso l’analisi della più rilevante tra le “controtendenze” previste da Marx: l’aumento dell’intensità del lavoro (e con essa del pluslavoro). Taylorismo e fordismo rappresentano agli occhi di Gramsci la strategia più organica e “scientifica” di intensificazione dei ritmi produttivi, la più sistematica risposta “soggettiva” evocata dai meccanismi “oggettivi” dell’accumulazione del capitale: «La legge tendenziale della caduta del saggio del profitto – osserva Gramsci – sarebbe quindi alla base dell’americanismo, cioè sarebbe la causa del ritmo accelerato nel progresso dei metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo tradizionale dell’operaio» (Quaderni, p. 1313).

Ha pertanto pienamente ragione G. Marramao allorché, commentando l’opera di Grossmann, afferma che «il complemento teorico-politico naturale del suo “modello” non è l’attendismo secondinternazionalista ma l’analisi degli effetti strutturali del taylorismo e del fordismo compiuta da Gramsci nei Quaderni del carcere». È sul terreno della legge economica strutturale che si sviluppa l’articolato complesso di azioni e reazioni coscienti, destinate – in relazione ai contingenti rapporti di forza fra le classi – ad accentuare o a rallentare la tendenza scientificamente rilevata, fino a rovesciarne temporaneamente la dinamica o a inibirne il pieno dispiegamento. Giunti a questo crocevia, osserva Gramsci, la “quantità” si converte in “qualità”, l’economia trapassa nella politica; «cioè la contraddizione economica diventa contraddizione politica e si risolve politicamente in un rovesciamento della prassi».

Ma senza la consapevolezza dei fondamenti su cui poggia, non si comprenderebbe per intero il significato e la pregnanza dell’analisi gramsciana del taylorismo e del fordismo. È la teoria del valore e del plusvalore che – dando luogo alla tendenza del profitto a decrescere in rapporto al capitale complessivo accumulato – fornisce linfa vitale alla trattazione gramsciana, anche laddove essa appare meno agevolmente riconducibile a questo sostrato economico “astratto”. L’efficacia di questo nesso – di cui Gramsci fu sempre ben consapevole – dovrebbe costituire anche oggi un valido stimolo all’analisi e all’interpretazione delle forme attuali di accelerazione dei ritmi produttivi, delle nuove strategie messe in atto dal capitale per salvaguardare la propria valorizzazione, contrastare il declino del tasso di profitto globalmente disponibile e ristabilire dopo ogni crisi “adeguati” livelli di redditività a scapito del lavoro.

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