di GIUSEPPE SCHERPIANI –
C’era negli anni 60 una canzone che amavo sopra ogni altra. Era del grande Enzo Jannacci ed aveva come titolo “Ohé sunt chì“, scritta ovviamente in dialetto milanese. Il suo incipit era il seguente «Ohé sunt chì – vegnì giò cunt la piena – vegnì giò chì a Milàn…», poi proseguiva in una specie di diario intimo della sua prima apparizione infantile nella metropoli («Mì gh’avevi tri ann – forsi du ann apena»), lui, el terùn. Nel dialetto meneghino del tempo quelli venuti giù con la piena erano i montanari goffi, ignoranti e corti d’ingegno della bergamasca, che quando arrivavano in città facevano ridere tutti per i loro modi e il loro parlare, perché totalmente estranei al contesto. Roba di un altro pianeta.
In questi giorni, invece, abbiamo visto in TV prima il capo degli industriali Giorgio Squinzi, poi quello dei commercianti di Confcommercio Carlo Sangalli. I quali hanno scoperto che c’è la crisi, che ha avuto effetti devastanti, che oggi abbiamo quasi tre milioni di disoccupati (il 12,8% del totale della forza lavoro), che il 42% dei ragazzi sotto la trentina non lavora e che esistono 2,2 milioni di nullafacenti (NEET) perché il lavoro non si trova, per cui non vale la pena cercarlo né tantomeno studiare. Questi ultimi poi, una vera bomba sociale pronta a deflagrare nei prossimi decenni, quando per loro non ci sarà pensione, né reddito, né più speranza di aiuto da parte dei genitori. Tutti e due sbigottiti e attoniti, come i povericristi dell’Alta Val Brembana rivaà giò a Milàn cunt la pièna, altrove conosciuta come fiumana.
E allora, alla faccia del liberismo, hanno chiesto aiuto allo stato, perché il loro benessere e quello dei lavoratori collimano. Un collimare piuttosto peloso in verità quello degli industriali, visto che nel 2001, Berlusconi governante e D’Amato loro presidente, diedero il via a tutta quella serie di “riforme” basate sul più estremo e massiccio attacco al lavoro mai messo in atto in Italia, che avrebbe dovuto liberare l’impresa dai tanti lacci e lacciuoli presenti nella Costituzione “sovietica”, avente come traguardo finale l’abolizione dell’art.18 dello statuto dei lavoratori. Obiettivo fallito a causa della più straordinaria mobilitazione di popolo mai vista in Italia: 23 marzo 2002, Roma, Circo Massimo. Comunque tutti i guasti berlusconiani – dall’uso del potere pubblico per fini privati, alla corruzione, alla devastazione dell’ambiente, al drenaggio delle risorse dall’istruzione pubblica verso quella privata, all’incoraggiamento alla più sfrenata evasione fiscale – si realizzarono proprio in quel periodo, sotto gli occhi di quei due stessi signori, oggi intenti al più trito chiagne e fotte, i quali in quei giorni, mesi e anni rimasero tranquilli a guardare tacendo.
Per quanto riguarda i commercianti, invece, vogliamo ricordare a Sangalli i giorni in cui i suoi attuali associati, nel bel mezzo della conversione dalla lira all’euro, alzarono drasticamente l’asticella dei prezzi per mezzo di un rapporto del tutto personale fra le due monete, accorciando simmetricamente, per riflesso, la portata del potere d’acquisto dei percettori di redditi fissi. Cioè, in parole povere, dando inizio alla crisi che viviamo oggi (loro compresi) per insufficienza di retribuzioni. E ci piacerebbe anche che leggesse di tanto in tanto i titoli dei giornali che, ad ogni rapporto ISTAT, pubblicano le ridicole denunce dei commercianti tutti, che immancabilmente registrano redditi inferiori ai nostri stipendi da fame. Ma ciascuno di loro naturalmente è una brava persona che paga il suo tributo a Cesare. E non abbiamo alcun dubbio sul fatto che anche il presidente Sangalli abbia denunciato i suoi guadagni fino all’ultimo centesimo “because Brutus is an honorable man“.
Perciò, signori Sangalli e Squinzi, non andate a chiedere al governo aiuti di alcun genere. Diteci piuttosto, o almeno dite prima, cosa siete disposti a fare VOI, con i vostri iscritti, per l’Italia e per gli italiani.