di Alberto Savioli –
Ho lavorato in Siria come archeologo per 14 anni, dal 1997 allo scoppio delle primavere arabe. Ho avuto modo di conoscere ogni angolo di quella splendida terra e i molteplici gruppi religiosi ed etnici, frutto di una complessità storica di un luogo al centro di vie carovaniere e di Imperi. Per dieci anni ho frequentato le tende dei beduini condividendo con loro l’austerità ma anche la libertà della loro vita, nello stesso tempo a Damasco frequentavo i “salotti buoni”, arrivando a lavorare in un progetto finanziato e patrocinato dalla first lady siriana, Asma al-Assad che ho incontrato due volte. Pur avendo amici intellettuali che avevano patito il carcere nell’”illuminata” dittatura degli Assad, consideravo il regime il male minore ad un rischio estremista che sotto traccia si percepiva nel paese.
Allo scoppio delle proteste di piazza in Siria, nel marzo 2011, ho sperato in un’apertura del regime siriano che desse vita ad una stagione di riforme invece che ad una repressione sanguinaria di manifestanti pacifici, che tali sono rimasti per 6-7 mesi.
Negli ultimi cinque anni, ho assistito allo stravolgimento della vita degli amici siriani: i commercianti della borghesia sunnita di Damasco e Aleppo hanno abbandonato la città per ricominciare una nuova vita in Oman, negli Emirati Arabi o a Istanbul, un mio operaio di Jarablus è entrato nella brigata Zenghi dell’Esercito libero siriano per combattere il regime prima e poi lo Stato islamico, gli amici beduini di Swar (Deir ez-Zor) sono passati da una libertà dal regime a una nuova dittatura dello Stato islamico, il mio aiuto cuoco è diventato un combattente dello Stato islamico, gli amici curdi di Amuda (Qamishli) sono fuggiti a piedi nel Kurdistan iracheno, gli amici cristiani e alawiti di Homs sono diventati strenui supporter del presidente siriano, mentre i siriaci di Malkiya sono espatriati dai parenti in Svezia, i giovani amici universitari (tra loro anche alawiti e cristiani) sono diventati dissidenti, oppositori e alcuni sono finiti nelle carceri del regime, altri ancora hanno tentato la fortuna via mare.
Ogni anno è cominciato pieno di speranza per la fine del conflitto, le proteste di piazza nel frattempo si erano trasformate in una guerra civile per diventare una guerra finanziata da attori regionali, ma invece ogni anno finiva nel modo peggiore, con sempre più massacri che hanno confuso tra loro buoni e cattivi.
Ho visto quasi ogni fotografia e video dei massacri confessionali di Houlè, di Banyas e al Beyda dove le squadre confessionali del regime siriano capeggiate da Ali Kayali, hanno sgozzato in una notte più di duecento persone lasciando a terra i cadaveri di donne e bambini. Ho visto i corpi straziati di bambini senza arti o a brandelli, a causa della vendetta del regime contro la popolazione considerata ribelle, bombardata quotidianamente con cluster bombs, barrel bombs, e ordigni convenzionali ad Aleppo, Idlib, Dareya, Duma, Deir Hasafir; oppure i volti di bimbi agonizzanti e con la bava alla bocca e in cerca di un refolo di ossigeno dopo gli attacchi ripetuti del regime con bombe al cloro o con il fosforo bianco a Erbeen, Idlib, Hama, Deir. Ho visto anziani e bambini morire di fame perché i loro quartieri (ribelli) sono stati stretti sotto assedio dal regime, ricordo l’anziano con le lacrime agli occhi che strappava erba da mangiare ai lati della strada, o Maram, la bimba di Muaddamiya, denutrita come molti infanti che non hanno accesso a latte e cibo. Le mie gallerie fotografiche e video, così come le mia mente, si riempiono quotidianamente di orrori.
Non manca il recente uso di napalm alla periferia di Damasco documentato dai Syrian Civil Defence, un gel trasparente rilasciato dallo scoppio di 30 bombe che dopo 12 ore ancora bruciava. Cito per ultimi i tragici fatti della Ghouta, nell’agosto 2013, in cui hanno perso la vita più di 1200 persone gasate (e circa 3000 sono ricorse a cure mediche) con diversi attacchi con il gas sarin durante la notte. Si tratta di un fatto dibattuto per cui non si è individuato un responsabile preciso, alcuni pensano si tratti di un singolo attacco ad un’unica località. In realtà sono stati colpiti con molteplici attacchi i villaggi di Zamalka, Ain Tarma, Muaddamiya (tutte località “ribelli”) e come dice il rapporto di Human Rights Watch “Il 21 agosto gli attacchi sono stati un sofisticato attacco militare, che richiede grandi quantità di gas nervino (ogni testata da 330 millimetri si stima contenga da 50 a 60 litri di agente), sono necessarie procedure specializzate per armare le testate con il gas nervino…”. Come detto dagli ambasciatori americano e francese all’Onu, Samantha Power e Mark Lyall-Grant, il rapporto Onu mostra per esclusione come il responsabile dell’attacco del 21 agosto possa essere solamente il regime siriano, l’unico che ha la possibilità di compiere un attacco di quel tipo e di quella portata.
Accanto alla vita dei miei amici anche la mia è stata stravolta, anche se in misura minore. Mi sono sposato in Siria nell’ottobre 2010 con una ragazza sciita, ho comperato un campo di ulivi, melograni e limoni in previsione di costruirci una casa e stabilirmi. Il sogno si è spezzato nel 2011. Mia moglie dopo un dottorato di ricerca in Italia ha cambiato professione per lavorare con i rifugiati siriani e si è trasferita a Beirut dove si trova attualmente e dove fa spola tra il Libano e la Siria. Entusiasta come molti giovani allo scoppio delle rivolte che per loro facevano presagire ad una stagione di libertà dopo quarant’anni di dittatura, anche lei si è trovata disillusa di fronte alla violenza delle armi e di chi parla di “liberazione” di Idlib con caduta del regime a favore della conquista del gruppo qaedista di Jabhat al-Nusra. La sua città, Salamiyyah, la “patria” degli Ismailiti, nel 2011 ha visto le proteste di molti giovani contro il regime, chiedevano libertà e diritti come in altre parti del paese, queste proteste sono continuate nel 2012, una nostra parente è stata arrestata per aver portato farmaci agli abitanti di Zabadani. Ora, a 2015 inoltrato, la stessa città si trova a sperare nella difesa del regime poiché ha lo Stato islamico alle porte che ha già ucciso un centinaio di civili in un villaggio limitrofo, a Mahbuja, per il solo fatto che erano di confessione sciita. Qualche mese fa un gruppo di giovani coscritti della città (sciiti ismailiti), sono fuggiti per non prestare servizio nell’esercito governativo ed essere costretti ad ammazzate altri siriani, mentre fuggivano verso la Turchia sono stati catturati nei pressi di Idlib da Jabhat al-Nusra e uccisi in quanto sciiti. Per me questa città, Salamiyyah (a est di Homs), rappresenta il paradosso siriano e della rivoluzione. Una rivoluzione prima tradita dall’occidente e poi uccisa in primis dal regime siriano e dall’alleato russo (complice di più veti all’ONU sulle proposte di corridoi umanitari e no fly-zone) e iraniano, poi dai paesi del Golfo e dalla Turchia sostenitori di fazioni liberticide ed estremiste a loro più congeniali. Non tralascio il tradimento di chi manifestava assieme a chi aveva un sogno di libertà e diritti ma che aveva in mente un altro tipo di Siria, estremista e sharaitica.
Ora la Siria non esiste più, vi sono almeno quattro paesi, ognuno con una sua problematica e con uno o più nemici anche diversi, l’unica vittima è sempre il popolo siriano costretto a scappare dal paese o dalle abitazioni, più del 50% tra sfollati interni ed esterni, nonostante l’Europa provi a resistere con la costruzione di nuove barriere là dove quelle naturali non siano sufficienti (il 34% delle persone che stanno arrivando in Europa sono siriane, secondo UNHCR). Su una popolazione di poco più di 20 milioni di abitanti prima della guerra adesso 7,6 milioni sono sfollati interni e 4 milioni i rifugiati nei paesi limitrofi, in totale 16 milioni di persone hanno bisogno di assistenza. La pace per la Siria non sembra più essere all’ordine del giorno, e la “comparsa” dello Stato islamico sta riabilitando Assad agli occhi di alcune cancellerie occidentali, che stanno spazzando i “gravi crimini contro l’Umanità” della famiglia Assad come la polvere sotto al tappeto.
È una grave colpa dimenticare che tra marzo 2011 e agosto 2015 il 94,3% di bambini sono stati uccisi dal regime siriano principalmente con bombardamenti aerei, 11.035 secondo il Syrian Network For Human Rights (mentre sarebbero meno del 4% gli uccisi dai ribelli e meno del 2% quelli uccisi dallo Stato islamico; vittime innocenti anche loro sacrificate alla statistica e alla scala del meno peggio del peggio). Anche un recente articolo di Kenneth Roth (executive director di Human Rights Watch) per il New York Times dice che la maggior minaccia di morte per i siriani non è l’Isis ma le barrel bombs del regime siriano. Solo nel mese di agosto sono state sganciate circa 1591 barrel bombs in diverse città siriane che hanno causato la morte di 115 persone di cui 73 erano bambini (il 99% dei colpiti sono civili), secondo i dati di Syrian Network for Human Rights.
Vorrei che l’Italia si adoperasse il più possibile per il raggiungimento di una pace in Siria a qualunque costo anche in funzione anti-islamista e poi, che i “gravi crimini contro l’Umanità” perpetrati da Assad non vengano dimenticati. Dovessero passare cinque anni, dieci o quindici, ma chi si è macchiato di questi crimini deve essere portato di fronte ad un tribunale internazionale. Questo non per le nostre vite rovinate o per quelle strappate dei siriani che non verranno rese, ma per noi, noi Italia, noi Europa, che ci facciamo paladini di valori e diritti umani universali e siamo sempre pronti a commemorare i genocidi della storia ma non riconosciamo i genocidi contemporanei. La giustizia e il pagamento della colpa non è per la Siria e i siriani, ma per dare sostanza e concretezza a valori che non possono essere solo ideali o inchiostro su una pagina.
Alberto Savioli èarcheologo ed esperto GIS, ha lavorato in Siria dal 1997 (negli scavi archeologici di Tell Shiukh Fawqani, Mishrife, ar-Rawda e nell’area di Palmira), in Libano, Turchia, Iraq, Arabia Saudita. In Siria ha studiato l’arte del tatuaggio delle donne beduine di diverse tribù, e per conto della IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione dell’Ambiente) ha condotto una ricognizione etnografica e socio-economica sulle tribù a nord di Palmira. Sul tatuaggio femminile e sulle tribù siriane ha fatto delle mostre fotografiche a Udine, Modena, Cordova; sul degrado ecologico che coinvolge le tribù siriane ha co-diretto un documentario dal titolo Mafi Rabi’a, “Non c’è più primavera”. Dal 2011 collabora con il sito web SiriaLibano ed è impegnato in conferenze di sensibilizzazione sul conflitto siriano e sulla distruzione del patrimonio storico-artistico siriano e iracheno. Dal 2012 è impegnato con l’Università di Udine nel Progetto Archeologico Terra di Ninive nel Kurdistan Iracheno.