di Eleonora Forenza e Sandro Targetti –
Il voto alle elezioni politiche del 4 marzo esprime un esito di portata storica. In primo luogo la netta sconfitta dell’establishment del Pd, travolto come tutte le forze della socialdemocrazia in Europa, che hanno contribuito a imporre ai popoli europei le politiche neoliberiste, le riforme strutturali, lo svuotamento della democrazia e l’aumento della povertà e delle disuguaglianze.
Questo esito è il anche frutto dell’assenza di un conflitto sociale di massa, di un tessuto sociale più passivizzato in Italia che in altri contesti europei – dove il conflitto sociale ha consentito l’affermarsi di “populismi di sinistra” – e di un quadro politico più americanizzato, dove il bipolarismo “berlusconismo-antiberlusconismo” ha visto il susseguirsi di grandi coalizioni, governi tecnici, alternanza tra i due poli nella continuità delle politiche neoliberiste. Nell’assenza del conflitto sociale, la rottura del bipolarismo italiano non porta alla affermazione di massa di una rottura col sistema che sappia coniugare “il basso contro l’alto” con la proposta di una alternativa di società anticapitalista, antisessista, antirazzista, antifascista. (…)
In questo quadro, il risultato elettorale di Potere al Popolo è – lo diciamo senza infingimenti e autoconsolazioni – al di sotto delle aspettative e delle potenzialità del progetto. Allo stesso tempo, diciamo con altrettanta nettezza che Potere al Popolo è stata la scelta giusta e rappresenta la prospettiva politica su cui continuare a lavorare: come abbiamo detto in campagna elettorale, Potere al Popolo continua, indietro non si torna.
Perché? Perché Potere al Popolo ha aperto una prospettiva di lavoro politico e sociale per la costruzione di una alternativa che abbia l’obiettivo di costruire un nuovo blocco sociale e parlare al “popolo-classe”. Se il volano dell’egemonia neoliberista è la produzione di disgregazione e, quindi, di passivazione, Potere al Popolo ha rappresentato un movimento opposto di riattivazione e di riconnessione.
La formazione delle liste di Potere al Popolo – avvenuta nelle assemblee territoriali e non nella spartizione a tavoli notturni – e la campagna elettorale hanno rappresentato questo lavoro molecolare di connessione, di costruzione dell’unità delle lotte come processo costituente di un movimento sociale e politico per la maggioranza non rappresentata.
Scorrendo le liste di Potere al Popolo si incrociano voci del lavoro precario e attiviste per la difesa dell’ambiente e del territorio (No Tap, no Tav, no Triv, no Muos …), lotta contro la “buona scuola”, resistenze operaie, pratiche mutualistiche e partigiane della Costituzione, militanti di centri sociali e attiviste LGBTQI, dirigenti di partito e femministe, antimafia sociale e associazioni per i diritti delle persone detenute. Le pratiche del conflitto, del mutualismo, della solidarietà sociale come ridefinizione della politica non relegata sul terreno della rappresentanza o del governo sono alla base di questa esperienza: una pratica concreta del fare società per fare politica contro il neoliberismo che afferma che la società non esiste e lavora a distruggerla.
Come auspicavamo nel dibattito congressuale di Rifondazione Comunista, possiamo finalmente chiudere il ciclo decennale e fallimentare che ha imperniato la prospettiva politica del partito nella costruzione politicista dell’unità della sinistra, ripartire da una ipotesi di lavoro non solo nettamente alternativa al Pd e al Socialismo europeo sul terreno politico, ma che assume come fondativa la riconnessione di politico e sociale nella costruzione del blocco sociale. Valutiamo molto positivamente che questa proposta stia diventando una prospettiva di azione di tutto il partito. Non ci illudiamo sulla capacità di autocritica del gruppo dirigente, ma lavoriamo affinché non si perseveri negli errori degli scorsi anni.
Fino a pochi mesi prima della campagna elettorale, dopo anni di Federazione della Sinistra e tavoli, il partito si attardava nell’investire sul “Brancaccio”, ignorando i segnali di ambiguità – che pure non abbiamo mancato di evidenziare – che emergevano sotto il tetto della “Lista unica della Sinistra”: ambiguità sia nel rapporto col socialismo europeo, sia nelle tentazioni di rifondazione del centrosinistra. In sintesi, si trattava di una prospettiva politicista a sinistra del Pd, ma non alternativa al Pd e al Socialismo europeo, come ha dimostrato successivamente la lista Liberi e Uguali, che subisce una sconfitta disastrosa non solo sul terreno elettorale, ma – qui a differenza di Potere al Popolo – anche sul terreno della prospettiva politica.
Grazie al fallimento del Brancaccio (determinato dai gruppi dirigente di Si, MdP, Possibile e dai garanti) e al sostegno dato all’iniziativa meritoria dell’ex Opg-Je so’ pazzo (che già aveva fortemente criticato la gestione del Brancaccio), il Prc si è salvato da una prospettiva elettoralmente e politicamente fallimentare. Il piccolo mondo antico della “sinistra che conta” non c’è più, è il vecchio che è morto. Potere al Popolo è piccolo, ma è il vivo che sta nascendo. Per questa ragione, abbiamo difeso l’idea che non ci fosse la parola sinistra nel simbolo della lista: non dobbiamo ricostruire la sinistra che ha divorziato dal popolo-classe, ma il popolo-classe che non si identifica più nella parola sinistra.
Proprio perché Potere al Popolo ci ha aperto una possibilità di lavoro in avanti, la risposta a un risultato elettorale negativo è stata in continuità con quell’energia che abbiamo riscontrato in questa bellissima campagna elettorale, carica di entusiasmo, che ha riattivato e riconnesso energie militanti, organizzazioni comuniste e anticapitaliste, centri sociali e movimenti, sindacalismo conflittuale, pezzi di intellettualità e precariato cognitivo, ma anche attivato la partecipazione di tante singole e singoli e “sottratto” all’astensionismo compagne e compagni.
Siamo consapevoli dei limiti di Potere al Popolo: in primo luogo del fatto che abbia raccolto molto voto militante, ma non intercettato le fasce popolari a livello di massa; dei problemi che si sono riscontrati su molti territori; di una eccessiva centralizzazione riscontrata nell’emergenza della campagna elettorale; del rischio di una recinzione e di una forzatura organizzativa che, riproponendo vecchie forme della politica, depotenzierebbe le possibilità di apertura del progetto.
Per queste ragioni, è necessario continuare a lavorare convintamente sulla prosecuzione di Potere al Popolo, sul superamento dei limiti riscontrati, sulla sua democratizzazione e sulla sua apertura a settori sociali e di movimento che ancora non abbiamo coinvolto, anche per il breve tempo e l’oscuramento mediatico che abbiamo subito in questa campagna elettorale; rilanciare le adesioni individuali e collettive al manifesto e al programma come base per una democratizzazione, che permetta di superare sia una eccessiva centralizzazione che la logica degli “intergruppi”, dando lo stesso potere di decisione a tutte e a tutti.
Per queste ragioni, sarebbe un errore gravissimo intendere Potere al Popolo come scelta tattica e non strategica, come un autobus elettorale preso in mancanza d’altro, come uno dei tanti cantieri della sinistra e non come il luogo che ci consente una prospettiva strategica per la rifondazione comunista; sarebbe un errore gravissimo confondere la necessità dell’apertura del progetto di Potere al Popolo con l’inseguimento di pezzettini di ceto politico della sinistra.
Apertura e allargamento vanno praticati in primo luogo come radicamento nelle fasce popolari, nelle generazioni precarie, come risposta all’aumento della povertà e delle disuguaglianze che Potere al Popolo come movimento sociale e politico, radicale e popolare, deve saper fornire.
Andiamo avanti, consapevoli dei rischi, ma senza paura, e con coraggio. Indietro non si torna!