di Salvatore Prinzi ♦
Spesso ci chiediamo: perché davanti a tutte queste ingiustizie la gente non si ribella? In questa pagina il grande filosofo Jean-Paul Sartre ci dà una possibile risposta.
Di solito pensiamo che una situazione di sofferenza produca di per sé una presa di coscienza. In altre parole, che uno stato di fatto oggettivo determini un cambiamento soggettivo. Dopodiché non ci spieghiamo perché in Africa non ci sia la rivoluzione. Perché al Sud accettiamo di dover emigrare o lavorare a nero. Perché quella nostra amica che le prende dal marito non lo lascia mai. Perché proprio le classi popolari votino uno che fa gli interessi opposti ai loro come Salvini…
Sartre dice: perché è solo quando si attua un mutamento soggettivo che siamo in grado di capire e trasformare lo stato di fatto. È la nostra capacità di negare il dato, è l’immaginazione e la possibilità tutta umana di trascendere il presente, a farci vedere le cose in un altro modo.
La situazione di sofferenza in sé è un puro contenuto affettivo, fa tutt’uno con il nostro essere. Non è messa a distanza, valutata, sottoposta a giudizio: finché non succede questo, non c’è trasformazione, solo abbandono alla passività.
Come si arriva allora a negare e trasformare il dato?
Non quando aumenta la sofferenza (“quando avremo tutti le pezze al culo, allora l’italiano si ribellerà!”), ma quando nella nostra vita incontriamo qualcuno che ci fa vedere una cosa diversamente, facendoci apparire un altro modo d’essere, quando viaggiamo, quando viviamo esperienze differenti dal solito, quando ci imbattiamo in una storia del passato che ci fa capire che non è sempre andata così…
Quando percepiamo la SPROPORZIONE fra la grandezza di ciò che potremmo essere e la miseria di quello che siamo ora.
Quando accade questo, noi DECIDIAMO che quella cosa è intollerabile – prima sapevamo che ci faceva soffrire, ma non avevamo deciso che era intollerabile – e solo allora una luce diversa illumina la nostra storia e la nostra attualità.
Un frammento di non essere irrompe nell’essere e inizia a corroderlo, a trasformarlo. Una volta che questa trasformazione trova un primo risultato, per quanto piccolo sia, si inizia a prendere gusto, si diventa liberi.
Possiamo trarre qualche indicazione da quello che dice Sartre? La butto lì.
1. Dobbiamo misurarci con tutte quelle esperienze che ci mettano in contatto con il non essere. Non rifiutarle, come purtroppo oggi molti, e spaventosamente i più giovani, tendono a fare. In ogni caso le incontreremo – morti, abbandoni, sorprese -, allora facciamoci i conti fino in fondo. E’ comprensibile che davanti alla crisi si cerchino rassicurazioni e tranquillità. Ma è sbagliato. Non possiamo ripiegare per paura sull’essere che ci offrono: la famiglia, l’autorità, il lavoro salariato. Non possiamo pensare che il nostro riparo siano le telecamere, la polizia, le leggi e gli avvocati, i protocolli su come lavarsi le mani, quel mondo bianco, insapore e politicamente corretto che ci offrono. Più Vasco, più “vita spericolata”: che cazzo ci conserviamo a fare una vita che tanto non saprebbe di niente? Vivere non è un valore in sé, come ci stanno facendo credere, conta quello che ce ne facciamo della vita.
2. Dobbiamo incoraggiare tutte le trasformazioni, anche piccole. Ma saper bene distinguere ciò che è trasformazione – gesto che per quanto piccolo apre una dimensione di non essere, di nuovo essere – da quello che non lo è – mutamento apparente che può essere anche grande e però nascondere la continuità dell’esser così…
Un ex carcerato che raccoglie consapevolmente abiti per i senza tetto, interiorizzando un elemento di solidarietà di classe che può essere contagioso, è una trasformazione piccola, più piccola quantitativamente di una misura come gli 80 euro di Renzi o il reddito dei 5 Stelle, ma qualitativamente del tutto superiore. Fottercene molto più della prima che della seconda.
3. Su queste linee di frattura esistenziali, su queste interruzioni, va costruito non solo un immaginario, canzoni, film e romanzi di cui abbiamo disperato bisogno (ormai si ascolta gente che sa solo ripetere il presente, che – nel migliore dei casi – crede che l’arte sia un semplice specchio!), ma anche un’organizzazione politica.
Un partito tradizionale in questa fase è troppo o troppo poco: ci serve innanzitutto un dispositivo che permetta di scartare dalla presunta naturalità di quello che ci accade, dall’esser-così, un modo di vivere un’altra esperienza, una formula per generalizzare e stabilizzare le piccole trasformazioni, qualcosa che permetta di conservare quella memoria che illumina il presente, che faccia apparire agli occhi di tutti quella trasformazione individuale come meritevole di essere seguita. Che sappia cioè ricostruire il terreno sociale senza cui non si può dare ipotesi collettiva.
Forse non c’è, al momento, altro modo di essere che negando quest’essere – così misero, così meschino. Allora proviamoci.