Per un LAVORO di cittadinanza (e solidarietà)

Alcuni cittadini e sindaci hanno presentato una proposta di legge regionale d’iniziativa popolare per il “reddito minimo di cittadinanza”. Un assegno di €750 garantirebbe i cittadini senza lavoro o altre risorse. Questo sarebbe l’asse portante di un presunto nuovo welfare invocato anche da Grillo. Perché la proposta abbia senso, è necessario riformularla completamente. Anzitutto, se non si affronta contestualmente la questione del lavoro nero e dell’evasione fiscale, il reddito di cittadinanza favorisce abusi insostenibili. In secondo luogo, la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, non sul reddito garantito che ha effetti distorsivi sull’economia. Se il lavoro è un diritto, è anche un dovere del cittadino fondare la Repubblica lavorando! Con un linguaggio comunicativo più intelligente e meno populista sarebbe stato meglio parlare di “lavoro di cittadinanza e solidarietà” da cui ricavare un reddito sia pure minimo. Rivendicare il diritto a lavorare e il dovere di aiutare la società è l’opposto che elemosinare un vecchio welfare paternalistico e lacrimoso.

Negli ultimi articoli della proposta di legge si fa riferimento a lavori utili previsti per occupare chi beneficerebbe dell’intervento. A causa dell’impostazione errata della legge, i lavori utili si cercano perché ci sono disoccupati. Invece il punto di partenza dovrebbe essere opposto: pensare a cosa sia utile fare e di conseguenza a occupare persone temporaneamente inutilizzate. Un’impostazione più moderna ed efficace presume che Comuni, quartieri nelle città maggiori, enti Parco, ecc., elaborino progetti utili sapendo che ci sono inoccupati che si offrono grazie a un sussidio. Si dovrebbe inoltre consentire a chi è senza lavoro di proporre progetti nei quali realizzarsi. I cittadini si esprimerebbero positivamente grazie al modesto sussidio. Si renderebbero utili e svolgerebbero, quando possibile, un’attività gradita. Questa impostazione stimolerebbe la creatività delle amministrazioni e dei singoli. A livello nazionale e regionale ci si dovrebbe attrezzare per fornire assistenza per l’elaborazione e la proposta di questi progetti. In questo modo si valorizzerebbero l’intelligenza e la creatività per migliorare la vita quotidiana. S’è già parlato di keynesismo culturale e ambientale nel senso della produzione di idee utili che mettono in moto l’economia. S’induce così un atteggiamento generoso anziché rivendicativo di un reddito pagato da contribuenti, lontani e invisibili. La creatività non deve essere necessariamente alta tecnologia, ma anche la semplice attenzione alle piccole esigenze quotidiane sulle quali le amministrazioni urbane oggi non pongono sufficiente attenzione.

Il vecchio stato sociale è fallito perché ha assunto proporzioni mastodontiche e ha perso il contatto umano della solidarietà. Una soluzione fiscale nazionale per il finanziamento del lavoro di solidarietà sarebbe quindi fallimentare, anche se si fantasticasse su risorse ottenute tagliando altre spese. Il finanziamento per il “lavoro di cittadinanza e solidarietà” si può ricavare da imposte locali a fronte di sgravi e progetti di lavoro specifici, in modo da creare un rapporto diretto e solidale tra chi paga il servizio e chi lo fornisce. I cittadini sono più facilmente disposti a pagare un contributo di solidarietà per il vicino di casa inoccupato che porta i pasti ai vecchi soli, garantisce la pulizia dell’ambiente, apre biblioteche e palestre la sera e la domenica, organizza attività sportive in un parco pulito e controllato, dà ripetizioni agli studenti, piuttosto che a pagare un tributo nazionale sulla cui corretta ridistribuzione nutre legittimi dubbi.

Corrado Poli

(editoriale del Corriere del Veneto del 12 aprile 2013)

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