di Antonio Di Luca
Matteo Renzi ha più volte dichiarato che la sua politica economica è in piena continuità con le esperienze di governo che l’hanno preceduto. Ma le linee economiche di chi lo ha preceduto (e ricordo che il Pd è al governo da due anni e mezzo, tre governi, nessuno dei quali scelto dai cittadini) hanno portato i risultati devastanti sul fronte dell’occupazione stando alle tabelle dell’Istat di qualche giorno fa. Ogni mese ci aspettiamo che la disoccupazione cali di qualche decimale e ogni mese, puntualmente, restiamo delusi. Del resto chi vive tra la gente, nei quartieri popolari, nelle periferie, sa benissimo che la notizia di qualche conoscente che ha perso il lavoro è assai più frequente di chi lo ha trovato. E quanti amici o figli di amici abbiamo dovuto salutare perché partiti per l’estero in cerca di miglior fortuna? Sembra di essere tornati agli anni del primo dopoguerra. L’analisi sociologica di quanto può far male questa situazione potrei continuarla a lungo, mi limito a ricordare un dato statistico. I dati sulla disoccupazione diramati oggi sono i peggiori dal 1977.
Sono molto preoccupato per questa situazione, perché il Jobs act di Renzi, che io preferisco chiamare legge sul lavoro, in italiano, non si discosta molto dalle precedenti devastanti norme di chi lo ha preceduto, dalla legge 30 alla (contro)riforma Fornero, anche se tutto nasce dalla famigerata legge Treu che aprì la strada al precariato. Quella di Renzi non è migliore perché non diminuisce la precarietà, la aumenta.
Loro preferiscono chiamarla flessibilità, perché così sembra una cosa positiva. Io penso che la flessibilità la puoi declinare solo in alcune situazioni limite e quando sei in una situazione di piena occupazione o quasi, quando, se perdi un lavoro, hai la ragionevole certezza di trovarne un altro entro tempi brevi e nel frattempo il reddito di cittadinanza ti consente di sopravvivere e di cercare serenamente il lavoro migliore per le tue aspettative.
Ma voglio sottolineare qui anche come la ricerca estenuante di un lavoro, soprattutto al sud, soprattutto tra i giovani (qui più di uno su due non ha un lavoro e molti hanno anche smesso di cercarlo) porti a un arretramento fortissimo sul fronte dei diritti. So bene che questo discorso tra molti giovani non ha grande appeal perché questi chiedono prima di trovare un lavoro e poi di pensare ai diritti. Eppure è un binomio fondamentale e imprescindibile. Faccio l’esempio della sicurezza sul lavoro, è un diritto, ed è importante, soprattutto per chi svolge lavori manuali come l’artigiano l’operaio.
Quanti feriti e quante morti bianche piangiamo ogni anno? Quante se ne sarebbero evitate se ognuno di noi chiedesse il rispetto della sicurezza sui luoghi di lavoro? Quello che capita più facilmente è pensare che a noi non potrà capitare mai perché siamo attenti, perché abbiamo voglia di lavorare, perché siamo in piena salute. Non è così, tutti pensano di potercela fare e capisco anche che la concorrenza per quel singolo lavoro è talmente tanta che siamo disposti ad accettarlo al ribasso pur di averlo. Rinunciando, oltre ai diritti, anche a una parte di salario.
È una tecnica che molti imprenditori conoscono bene perché utilizzano tutti gli strumenti che la legge gli consente per pagare poco e avere alta produttività. I giovani, ma allargherei il discorso a tutti i disoccupati e a tutti i precari, sono sottoposti a ricatti continui e l’unica soluzione possibile è cambiare radicalmente quelle leggi. Innanzi tutto il contratto precario deve costare agli imprenditori più dell’assunzione a tempo indeterminato. Inoltre, passato il periodo di prova (che non può durare tre anni!) e una volta che si è stabilito un rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, non si capisce perché il lavoratore debba restare precario. È una questione di buon senso.
Se siamo in piena emergenza, come fotografano i dati Istat, è necessario perciò assumere misure si emergenza. Prima di tutto il blocco di tutti i licenziamenti in corso, attuando, anzi estendendo i contratti di solidarietà che prevedono la riduzione dell’orario di lavoro senza escludere nessun lavoratore dal ciclo produttivo. Subito dopo è necessario, ed è qui che si dovrebbe misurare la forza e la voglia riformatrice del governo Renzi, un piano industriale per il Paese che coinvolga tutti i settori del pubblico e del privato, che mantenga il rispetto dell’ambiente e dei diritti e li coniughi come importante risorsa per lo sviluppo futuro. Infine, collegato al piano industriale, un tavolo di crisi permanente che possa risolvere in fretta tutte le situazioni di dissesto e possa intervenire con proposte anche di riconversione della produzione. Mi aspetterei, infine, che il governo si facesse promotore della soluzione dei conflitti generazionali e non contribuisse ad acuirli.
Se un lavoratore anziano ha delle garanzie e uno giovane no le stesse garanzie vanno estese al giovane, non tolte all’anziano. E su questo l’indirizzo del governo sarebbe fondamentale. Per questo sono assolutamente contrario alla legge sul lavoro di Renzi che, come ha fatto Berlusconi per venti anni, vuole venderci una patacca spacciandola per oro.
http://www.listatsipras.eu/blog/item/2240-il-job-act-e-una-patacca.html