di Giancarlo Iacchini
L’Italia è uno strano paese. Mentre in tutta Europa si discute delle politiche più efficaci per garantire lavoro e reddito, che sono i due pilastri economici di una vita sociale degna di questo nome, in Italia si riesce perfino a litigare tra gli alfieri del «lavoro per tutti» e quelli del «reddito universale», per cui se proponi un «reddito di cittadinanza» non solo vieni tacciato di “utopismo”, ma ti guarda storto per primo chi ha un lavoro precario e rischia di perderlo dall’oggi al domani, perché ti dirà che bisogna dare il lavoro, e non “soldi facili” a chi “non fa niente”. Come se “non far niente”, in una società che condanna alla disoccupazione il 13% della popolazione in età lavorativa ed oltre il 42% dei giovani, sia una colpa morale di cui vergognarsi. Una società, quella italiana, in cui i senza lavoro sono 3,3 milioni e altrettanti sono i lavoratori precari, che percepiscono in media 836 euro al mese senza alcuna garanzia di continuare a guadagnarli anche il mese dopo.
Ovvio che «servirebbe il lavoro», ma se questo sistema economico che è in recessione ormai da 6 anni ma che nemmeno nelle fasi di espansione è più in grado di garantire la piena occupazione ed anzi è sempre più distante da quel punto di equilibrio (cosa che John Maynard Keynes – giusto per avvisare i distratti – aveva già rilevato 90 anni fa ne La fine del laissez-faire), allora le soluzioni sono soltanto due: più lavoro e/o più reddito; anzi una soltanto: un gigantesco New Deal che consenta allo stato di creare lavoro direttamente o indirettamente, attraverso la spesa pubblica e il sostegno alla domanda cioè ai redditi dei cittadini. Insomma, lavoro e reddito non sono alternativi e contraddittori ma sinonimi, uno la causa e l’effetto dell’altro. Le misure atte a creare lavoro producono reddito, e dunque nuovo lavoro per l’aumento della domanda di merci e servizi. E le misure per aumentare la domanda creano per l’appunto indirettamente lavoro nel settore privato; e possono crearlo direttamente anche nel pubblico, se il reddito garantito viene associato ad un piano comunale di lavori socialmente utili, di cui ci sarebbe un gran bisogno. Perfino Matteo Renzi, nell’ormai celebre discorso del 13 marzo sulla “diminuzione delle tasse” – con cui si è impegnato a restituire a fine maggio, ad una fascia limitata di lavoratori dipendenti, qualche goccia del mare magnum di risorse che le politiche di austerity hanno drenato in questi anni di “rigore” (mortis) – ha presentato come fosse una sua pensata geniale (guadagnandosi perfino gli applausi della sala stampa di Palazzo Chigi) quella che da anni è la richiesta che proviene da associazioni e comitati impegnati nel sociale: reddito ai disoccupati in cambio di lavori di pubblica utilità.
Ma siamo ancora all’abc di una politica sociale europea. Già, la grande beffa è che una parte del nostro Paese è pronta a rinnegare l’Europa (uscire dall’euro e da tutto) senza avere nemmeno conosciuto l’Europa del Welfare e dello stato sociale. Prestazioni e diritti che sono familiari e addirittura scontati in quasi tutti i Paesi del vecchio continente, da noi sembrano fantascientifiche utopie fatte apposta per infrangersi sul muro dell’«impossibilità di reperire risorse» nel disastrato bilancio statale. L’Italia è l’unico stato dell’Unione, insieme alla Grecia e all’Ungheria, a non avere il (per noi) “mitico” reddito minimo garantito, che consiste nell’integrare in vario modo i redditi percepiti fino ad una soglia «adeguata ad un livello dignitoso di vita», come recitano diverse direttive della UE. «Ogni lavoratore della Comunità – asserisce ad esempio la raccomandazione 92/441 – ha diritto a una protezione sociale adeguata e deve beneficiare, a prescindere dal regime e dalla dimensione dell’impresa in cui lavora, di prestazioni di sicurezza sociale ad un livello sufficiente. Le persone escluse dal mercato del lavoro, o perché non hanno potuto accedervi o perché non hanno potuto reinserirvisi, e che sono prive di mezzi di sostentamento, devono poter beneficiare di prestazioni e risorse sufficienti, adeguate alla loro situazione personale». Generico nel quantificare il livello di dignità, se vogliamo, ma esplicito nel dire che un reddito addizionale dev’essere assegnato dallo stato. Più esplicito infatti il Parlamento europeo, «che nella sua risoluzione concernente la lotta contro la povertà nella Comunità europea ha auspicato l’introduzione in tutti gli stati membri di un reddito minimo garantito, inteso quale fattore d’inserimento nella società dei cittadini più poveri». In sostanza non c’è solo l’Europa che impone i sacrifici e il risanamento finanziario, ma anche quella che raccomanda espressamente ai singoli stati «di riconoscere, nell’ambito di un dispositivo globale e coerente di lotta all’emarginazione sociale, il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana, e di adeguare di conseguenza i propri sistemi di protezione sociale a questi principi e orientamenti». Chissà se è da questa Europa che i neoautarchici vorrebbero uscire…
«Come si fa a ignorare un aspetto così importante della vita di ogni cittadino europeo? – scrive Giovanni Perazzoli su Micromega – Io non me ne capacito. In Italia non si sa neanche che in Europa (Francia, Germania, Gran Bretagna e non solo Danimarca, Svezia, ecc.) chi non guadagna abbastanza o lavora part-time ottiene un’integrazione del reddito. Poi si scopre che in Italia il reddito medio è da miseria. E tutti si sorprendono. Ma veramentegli italiani ignorano l’abc dello stato sociale?». Si discetta se sia “reddito di cittadinanza” oppure “reddito minimo garantito”, e in che modo venga erogato in questo o quel Paese, e non ci si accorge che quando lo stato non fornisce salario immediato può garantire reddito aggiuntivo ad esempio (e scusate se è poco) pagando il canone d’affitto di chi è senza lavoro oppure le spese per i figli, piccoli o grandi: «Una donna sola e disoccupata con figli riceve in Germania dallo stato più di 1.800 euro mensili», calcola Perazzoli, che conclude: «Non capisco perché nonostante l’Europa raccomandi dal lontano 1992 all’Italia di introdurre un reddito di cittadinanza, questo non succede neanche con la crisi. A chi giova? Evidentemente a qualcuno gioverà. Non mi pare che sia uno scoop scoprire quello che per diversi milioni di persone è assolutamente normale».
Ma ciò che è normale in tanti altri Paesi, da noi richiederebbe una rivoluzione. E’ chiaro infatti che tutto il sistema assistenziale e previdenziale dovrebbe essere riformulato, anzi ricostruito di sana pianta. Nel Paese delle “pensioni d’oro” oggi la regola aurea sarebbe invece garantire tutti i «meno avvantaggiati» (per usare l’espressione di John Rawls nella celebre – ma pochissimo letta in Italia – Teoria della giustizia del 1971) a partire dai giovani che non trovano lavoro. E con il paracadute sociale rappresentato da un basic income comunque garantito, parole come flessibilità o anche precarietà assumerebbero un altro aspetto: precario sarebbe il lavoro e non la vita!
Però in Italia, strano paese appunto, un “paracadute sociale” in fondo c’è, a parte le pensioni ormai ultraspremute di genitori e nonni: è il lavoro nero, che causa al fisco un buco annuo di 43 miliardi di euro ma che immette nel sistema un reddito aggiunto che in molti casi è assolutamente vitale, proprio per l’assenza di politiche sociali degne di questo nome: «Col sommerso – spiega Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA di Mestre – la profonda crisi che sta colpendo il Paese ha effetti economici e sociali meno devastanti di quanto non dicano le statistiche ufficiali. In particolar modo al Sud possiamo dire che il sommerso costituisce un vero e proprio ammortizzatore sociale. Sia chiaro: nessuno vuole esaltare il lavoro nero, spesso legato a doppio filo con forme inaccettabili di sfruttamento, precarietà e mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro. Tuttavia, quando queste forme di irregolarità non sono legate ad attività riconducibili alle organizzazioni criminali o alle fattispecie appena elencate, costituiscono in periodi così difficili un paracadute per molti disoccupati o pensionati che non riescono ad arrivare alla fine del mese». Ecco a che punto siamo, in questa Italia che sembra stufa dell’Europa senza averne mai conosciuto la faccia migliore.
(pubblicato su Barricate, n. 2, marzo-aprile 2014)