di Geraldina Colotti –
Nel XX secolo gli operai e i comunisti hanno esercitato una eccezionale influenza nelle vicende italiane. La storia del PSI, quella del PCI e quella della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta espongono un patrimonio imponente di esperienze che ha avuto innanzitutto il merito di collegare inestricabilmente la dimensione politica e quella sociale dell’attività delle classi subalterne. La lotta per i miglioramenti reali della vita quotidiana si saldava a un orizzonte di liberazione globale che conferiva forza alle battaglie sindacali e alla richiesta di riforme. Non a caso, quando questo orizzonte è venuto meno, è mancata anche la spinta all’unità, l’intelligenza pratica, l’analisi della realtà e l’innovazione organizzativa. Ne è scaturita una condizione di minorità e di sudditanza che ha abituato alla frammentazione, alla sfiducia, e alla confusione culturale. In una parola, da molti anni a questa parte il proletariato italiano risulta privo di quella indipendenza e autorevolezza politica che ne avevano fatto uno dei protagonisti maggiori della storia europea e uno dei punti di riferimento indiscussi del dibattito rivoluzionario internazionale.
Fino a qualche settimana fa, le elezioni politiche previste per il marzo del 2018 non sembravano proporre alcun elemento di novità sostanziale. Il processo apparentemente tormentato di riaccorpamento alla sinistra del PD di una nuova formazione politica zeppa di ex-ministri e sottosegretari, di magistrati di alto rango e di vecchi e nuovi professionisti delle istituzioni, è apparso sin da subito un mero episodio trasformistico tutto interno alla vicenda di un ceto politico irreparabilmente scollegato dalle classi popolari. D’altra parte, il campo dei soggetti in vario modo attivi contro il capitalismo appariva politicamente disunito e in qualche modo assuefatto (ove con rassegnazione, ove con orgoglio) alla propria estraneità strutturale alla contesa elettorale.
In questo quadro si è inserita l’iniziativa presa dai militanti dell’ex-OPG napoletano di proporre una lista autonoma e indipendente intitolata al motto Potere al Popolo. Le adesioni sono state molte, e il compito risulta difficile. La legge elettorale è fatta apposta per silenziare le minoranze, e impedire l’accesso alla rappresentanza di chi lotta coerentemente contro il sistema complesso e pervasivo dello sfruttamento contemporaneo. Inoltre, bisogna ammettere che lo spostamento del campo decisionale oltre i confini dello stato nazionale getta una comprensibile ombra di dubbio sulla utilità della presenza in parlamenti ormai svuotati di ogni funzione politica e sociale. Le esperienze di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna hanno generato molte disillusioni. Ma nulla vieta che l’ostinazione di ricominciare da capo possa produrre entusiasmo e creatività proprio in Italia, paese così intriso di storia proletaria e comunista, e così dolorosamente privo di sperimentazioni efficaci, da quando, nel 2001, l’imperialismo ha schiacciato il cammino delle nuove generazioni con la repressione della protesta popolare avvenuta a Genova, nel corso delle giornate di mobilitazione contro il vertice G8.
Ai compagni dell’ex-OPG di Napoli, Viola Carofalo e Giuliano Granato, rivolgiamo pertanto alcune domande, utili a collocare l’iniziativa di Potere al popolo nello scenario italiano, ma anche in quello della attualità internazionale. Il lettore deve essere avvertito anche di un elemento, per così dire, di contesto. I compagni napoletani svolgono in questo momento un delicato ruolo di mediazione, di cerniera e di coordinamento fra istanze e esperienze che hanno storie diverse, ma riconoscono di fatto la propria insufficienza politica. Accetteremo e capiremo un certo livello di provvisorietà. Ma ci auguriamo di non scadere nel generico.
Innanzitutto partiamo dalla parola d’ordine. Potere al popolo. Viene immediatamente in mente che la parola democrazia significa “potere del popolo”. Ma torna anche alla memoria la critica marxiana della democrazia borghese e della funzionalità capitalistica delle sue mitologie formali. Cosa significa potere al popolo oggi? È solo uno slogan, o ha anche l’ambizione di condensare in una formula necessariamente sintetica esigenze e contraddizioni specifiche del nostro tempo?
Potere al popolo è qualcosa di antico e di nuovo al tempo stesso. È l’attualità dell’inattuale. Per noi significa l’esercizio effettivo del potere da parte del popolo, la concretizzazione della possibilità di decidere sulle questioni che lo toccano. Potere al popolo non è la mera possibilità di decidere del proprio presente e futuro attraverso un pezzo di carta in un’urna elettorale. Il ritualismo democratico lo lasciamo ad altri. Per noi potere al popolo significa democrazia reale, quella che in alcuni luoghi dell’America Latina hanno cominciato a chiamare democrazia radicale, nel senso di un ripartire dalle radici, dal profondo. È democrazia “assoluta”, partecipazione del popolo sovrano non solo per la risoluzione di problemi pratici e puntuali, bensì per immaginare, definire, costruire e controllare l’implementazione di politiche a livello nazionale e anche internazionale. È il potere del popolo organizzato che prende coscienza della sua forza e dei suoi mezzi; che esercita il controllo popolare su ogni ambito della propria vita, che non lascia, nell’indifferenza, che “poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessano la tela della vita collettiva” (Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti). “Potere al popolo” è però anche un messaggio di per sé. Un messaggio che vogliamo arrivi a milioni di persone che a marzo si recheranno a votare. Indica, in maniera chiara e sintetica, il nostro programma di lavoro, il nostro obiettivo: in una fase in cui c’è un sempre maggior irrigidimento della catena di comando, in cui gli spazi di democrazia si riducono, nel corpo della società, ma anche in tutti i suoi gangli, a partire dai posti di lavoro, significa rimettere al centro il diritto a decidere delle nostre vite. Non solo possibilità di dire ciò che si vuole, ma di fare in modo che le nostre parole possano avere ricadute concrete, senza che servano come specchietto per le allodole per una società che ama definirsi democratica e che invece disprezza nel profondo tutto ciò che viene dalle masse.
Vorrei concentrarmi adesso sul concetto (se è un concetto) di “popolo”. Nella storia del movimento operaio questa espressione compare e scompare in relazione a particolari congiunture storiche e dentro precisi contesti geografici. Indubbiamente popolo significa qualcosa durante la lotta antifascista che conduce alla costituzione repubblicana a cui anche voi vi appellate, e qualcos’altro allorché il conflitto operaio del 1969 mette in discussione il comando capitalistico fin nel cuore dei rapporti di produzione. D’altronde popolo è termine che denota alleanze e blocchi sociali abbastanza precisi in America latina, in Africa e in Asia, e assai più sfumati nell’Europa della destrutturazione, ma non della scomparsa, del lavoro manuale tradizionalmente associato al concetto di proletariato. Non vi annoierò con le false e ipocrite domande sul “populismo”. Ma vi chiedo: quale popolo volete rappresentare e riunire? In che senso la maggioranza del popolo italiano sarebbe interessata a una alternativa di sistema al capitalismo contemporaneo?
Fidel Castro, nella sua autodifesa di fronte al tribunale della dittatura di Batista, poi data alle stampe col nome di “La storia mi assolverà” (un testo che andrebbe riletto oggi con grande attenzione, perché da ogni pagina trasudano un metodo e un’impostazione che sono attualissimi), in poche righe offre un affresco di cosa fosse all’epoca il popolo cubano, scattandone una foto, ma andando al di là dell’aspetto meramente sociologico e indicando una dimensione di soggettivazione, data dalla lotta. Ci pare possa essere un utile punto di partenza per comprendere cosa sia “popolo” per noi. Noi crediamo che dieci anni di crisi abbiano prodotto dei mutamenti di non poco conto, allargando la forbice – non solo quella della ricchezza – tra chi è in alto e chi è in basso, tra chi opprime e chi è oppresso, e portando ad un rimescolamento tra gli ultimi. Assistiamo infatti alla marginalizzazione di fasce sempre più ampie della popolazione. Parliamo degli “ultimi”, i capri espiatori per eccellenza, gli immigrati; ma parliamo di tutte le altre e tutti gli altri che oggi costituiscono gli “esclusi”. Dei “poveri”, autoctoni o stranieri che siano, contro cui gli ultimi governi hanno scatenato una vera e propria guerra, volta a far sparire non la povertà, ma gli stessi poveri dalla vista dei benpensanti e dei turisti. Parliamo dei lavoratori e delle lavoratrici, che i governi e l’apparato legislativo provano a mettere gli uni contro gli altri: quelli assunti trenta o vent’anni fa e che governo dopo governo, contratto dopo contratto, vedono una riduzione dei propri diritti e una riduzione degli spazi di democrazia; quelli che a lavorare hanno cominciato da pochi anni e che diritti e tutele quasi non ne hanno conosciuti; quelli che un lavoro non lo riescono a trovare e passano le giornate a sistemare e inviare curricula. Parliamo delle studentesse e degli studenti, inseriti sempre più in un sistema dell’istruzione che non offre strumenti di comprensione ed emancipazione, ma nozioni utili ad essere messe a profitto sui posti di lavoro. E non solo alla fine del percorso di studi, visto che con le ultime riforme troviamo ragazze e ragazzi di quindici anni costretti a lavorare gratuitamente presso aziende private per centinaia di ore all’anno, come parte obbligatoria del loro percorso scolastico. In ampie fasce di popolazione, questi settori si autodefiniscono “popolo”. Non siamo noi ad imporre a tavolino l’utilizzo di questo “concetto”. Lo abbiamo visto all’opera sui posti di lavoro e nei quartieri popolari, laddove le persone pensano a se stesse e parlano di sé come “popolo”: quello di chi non ha santi in paradiso, quello di chi lotta tutti i giorni per arrivare alla fine della giornata, quello che sogni ne ha, per sé e per i propri cari, ma è cosciente che, se le cose rimangono così, non si realizzeranno. Un popolo che odia – e in parte invidia, non nascondiamocelo – chi sta dall’altra parte: il padrone, il proprietario di casa, i “politici”. Ecco, noi siamo questo popolo, siamo le “vittime” di questo sistema. Eppure, pur essendo gli ultimi, su di noi viene scaricato non solo il peso economico ma anche quello morale della gestione della crisi. Quotidianamente veniamo infatti additati come colpevoli delle nostre stesse sofferenze. Siamo quelli che non brillano a scuola perché stupidi, quelli che non trovano lavoro perché non si impegnano abbastanza, quelli che il lavoro lo “perdono” perché inadatti alle esigenze di una moderna economia di mercato. C’è una dimensione di colpevolizzazione tesa a spingerci a pensare che il “fallimento” sia un fatto individuale. E, di conseguenza, anche la soluzione dovrà essere individuale. La dimensione di vittime ci racconta però solo una parte della storia. L’altra è quella di un popolo che non ci sta, che dà battaglia, che è orgoglioso di ciò che è e ciò che fa. Cosciente che se il paese va avanti è grazie al sudore della fronte di milioni di umili. Un popolo che è protagonista di centinaia di conflitti, per la difesa del territorio, per diritti e salari sul posto di lavoro, per un’istruzione emancipatrice, per la libera scelta sui propri corpi, ecc. Un popolo che non si arrende ai meccanismi di desolidarizzazione promossi dall’alto, ma riesce a “rimanere umano”, a costruire vincoli di solidarietà, a condividere con chi sta accanto quel poco che si ha. Noi crediamo ci sia un potenziale di ribaltamento dell’esistente e che il nostro compito possa essere quello di costruire spazio e organicità per le esigenze che vengono dal basso, andando ad articolarle insieme al popolo – e non al posto del popolo. Il “popolo” non è un figlio che ha bisogno delle cure di un padre, buono o autoritario che sia. È soggetto e non oggetto della Storia. [segue]
(intervista pubblicata da L’ANTIDIPLOMATICO e qui riprodotta su gentile concessione dell’autrice)