di Geraldina Colotti –
Le discussioni sulla partecipazione ai parlamenti hanno sempre diviso i rivoluzionari, e sono state oggetto di accese controversie. I parlamenti sono stati contestati, sono stati usati efficacemente come tribune, ma sono anche spesso diventati il perimetro che ha fagocitato in direzione esclusivamente istituzionale la presunta ricerca di vie nuove al socialismo. Noi siamo talmente al di là, o all’indietro, di queste esperienze da rendere tali problemi un non senso storico, oppure il passato può e deve insegnarci qualcosa?
Noi crediamo che questi problemi si presentino oggi come ieri. Ma non esistono piante buone ad ogni clima e a ogni tempo. Soluzioni utilizzate nei processi rivoluzionari del passato o di altre latitudini non è detto si confacciano alle necessità nell’Italia del qui ed ora. L’idea di lanciare la sfida di questa lista popolare nasce dalla volontà di non lasciare alcuno spazio al nemico senza provare a dare battaglia.
Per cui, anche chi come noi non ha mai partecipato all’agone elettorale, chi come noi ha spesso e volentieri disertato le urne, ha deciso di incunearsi in questo spazio. Ci attendono infatti mesi in cui l’attenzione sarà tutta concentrata sullo scenario elettorale. Di qui la necessità di squarciare il velo di ipocrisia e di far irrompere i bisogni e la voce delle masse, costruendo una campagna elettorale che permetta di trovare espressione a tutte le istanze e le lotte esistenti nel paese.
Vogliamo utilizzare la campagna elettorale, prima ancora di eventuali tribune parlamentari, come un megafono di ciò che già esiste, di ciò che è in gestazione e che difficilmente riesce ad uscire da una dimensione locale e vertenziale. Ma non vogliamo fermarci qui. Pensiamo che, in caso di elezione, gli eletti di Potere al Popolo dovranno dare vita ad un “parlamentarismo de calle”: essere presente sui territori, costruendo meccanismi di democrazia diretta e partecipativa ovunque sia possibile. Discutere sui territori e non solo tra addetti ai lavori, né solo con i gruppi “corporativi” le misure che arrivano in parlamento; proporne altre che siano frutto dell’elaborazione collettiva, che vengano “dal basso”. Rendere conto del proprio operato, avvicinando il proprio più ad un mandato “imperativo” che a quello “libero” previsto dalla Costituzione italiana.
Da questo punto di vista le esperienze di questi ultimi vent’anni in America Latina, in Venezuela in primis, offrono molti spunti utili. Nelle aule, invece, gli eletti dovranno essere una spina nel fianco del governo e dei gruppi di potere, portando il “controllo popolare” in parlamento. Per far questo, ovviamente, non è sufficiente uno sparuto gruppo di deputati, nemmeno se fossero i “migliori”; serve, invece, il popolo organizzato che dia sostegno e articoli il lavoro. Siamo coscienti dei rischi di una possibile cooptazione. Ma siamo convinti che il miglior antidoto non risieda tanto in proclami e parole, quanto nella prosecuzione di quel lavoro politico e sociale che tutti i giorni portiamo avanti. Come dicono spesso i compagni catalani, “un piede nelle istituzioni e mille nelle strade”.
La dialettica tra “campo popular” e “campo institucional” non la decidiamo a tavolino; si tratta di andare a costruire un equilibrio mai definito una volta per tutte. Al contrario negheremmo la dialettica. Ma abbiamo come obiettivo la costruzione di un movimento popolare e non elettorale. Per questo, fino a quando pensiamo che una campagna elettorale o un seggio possano essere utili per favorire questo processo, ben venga l’impegno su questo fronte. Nel momento in cui dovessero cambiare le condizioni, bisognerà cambiare anche tattica. Flessibilità tattica, accompagnata però da una permanenza strategica e alla chiarezza degli obiettivi sono assi su cui proviamo ad impostare il nostro lavoro. Ci viene in mente la dedica del Che quando regalò una copia del suo “Guerra di guerriglia” al presidente Allende: “A Salvador Allende, che con altri mezzi persegue gli stessi obiettivi”. Senza dimenticare che, per come sono costruite le istituzioni, comportano limiti e margini di manovra ristrettissimi. Non è un caso che anche laddove non si sia proceduto alla via leninista, si sia posta, prima o dopo, la necessità di trasformarle profondamente.
Nei vostri manifesti colpisce la rilevanza data alla dimensione del mutualismo. Perché gli conferite una così grande importanza? Come si incrocia il discorso sul mutualismo con quello della politica? Vi ispirate a esperienze precise, anche in campo internazionale, oppure ricercate una sintesi tutta italiana tra il ciclo comunista storico, quello della nuova sinistra degli anni Settanta, e l’esperienza ancora recente dei centri sociali?
Viviamo in anni in cui dall’alto vengono continuamente promossi meccanismi di frammentazione e di distruzione di quei vincoli di solidarietà che tutt’ora sono vivi nelle classi popolari. L’obiettivo è costruire individui isolati, possibilmente ostili gli uni agli altri. Far leva sui bisogni, sempre più impellenti, per scatenare competizione e guerra tra poveri. Noi proviamo invece a dare una risposta diversa. A palesare – e non solo a dire – che la via d’uscita, il soddisfacimento dei bisogni o è collettiva o non è.
A dimostrarlo coi fatti, col grigio lavoro quotidiano, con la costruzione di strutture fisiche e politiche di mutuo soccorso. Perché siamo stanchi delle parole quando sono sganciate dall’agire quotidiano. Ecco quindi che il mutuo aiuto diventa immediatamente politico nel senso che, se lo scopo che si riesce a raggiungere nell’immediato è il miglioramento concreto delle condizioni di vita, il soddisfacimento di un bisogno, è altrettanto vero che nel medio periodo si costruiscono rispecchiamento nell’altro, mutuo riconoscimento, legami di solidarietà: si costruisce, insomma, una comunità, il cui collante non è solo il posizionamento nella società, ma anche un metodo di lavoro e un orizzonte da costruire insieme. Inoltre, riuscire a mettere in piedi strutture di mutuo soccorso, dagli ambulatori popolari alle camere popolari del lavoro, passando per le scuole di italiano per immigrati, permette di costruire fiducia nelle proprie capacità collettive.
Laddove l’individuo non può arrivare da solo, la collettività può. Il mutualismo diventa una palestra per le masse popolari, grazie alle quali impariamo a esercitare il controllo su quelle istituzioni che nominalmente sarebbero preposte a garantire i nostri diritti, a costruire pezzi di autogoverno, a organizzare pezzi di società. Ed è – non ultimo – uno strumento di “attivazione” delle energie popolari: in anni contraddistinti dall’apatia, dalla rassegnazione e dal disinteresse, si comincia insieme un processo in cui chi è coinvolto sviluppa un desiderio di partecipazione, di comprensione e di trasformazione dell’esistente. È, in piccolo, una forma di democratizzare, di democrazia assoluta. In questi anni abbiamo avuto punti di riferimento importanti, abbiamo cercato di imparare dalle esperienze in corso in altri luoghi, dalla Grecia delle cliniche popolari alle reti di solidarietà dello stato spagnolo, passando per le esperienze comunitarie in corso in diversi paesi latinoamericani.
Senza dimenticare però che anche la storia del nostro paese è ricca, fonte di ispirazione e riflessione. Proprio a Napoli, ad esempio, è tutt’ora viva la memoria della “Mensa dei bambini proletari”, attiva per tutti gli anni Settanta. E poi c’è un mondo, tradizionalmente anche distante dal nostro, che abbiamo incontrato e imparato a conoscere. Parliamo di cristiani di base, associazioni laiche, impegnate quotidianamente nel non lasciare soli gli ultimi, che siano i senza tetto o gli immigrati. Con loro andiamo al di là dell’intervento assistenziale, abbiamo costruito una “rete di solidarietà popolare” e dato vita a momenti di lotta contro gli interventi securitari dello Stato.
Nel vostro movimento la presenza delle donne è evidente. In Italia, il femminismo è stato una componente determinante del ciclo di lotte degli anni Settanta. Poi si è trasformato in una sorta di cultura universitaria che non ha saputo contrastare la rivincita del patriarcato consumata nelle coscienze e nella vita quotidiana durante gli anni Ottanta e Novanta. Qual è la vostra visione del femminismo? Come si incrocia nella lotta il pensiero di genere con il pensiero di classe?
Il pensiero di genere, pur non esaurendosi in esso, è già pensiero di classe! Questo perché se il meccanismo del lavoro e dello sfruttamento attuale non ha “inventato” la subordinazione della donna all’uomo, ha però saputo ben sfruttare l’eredità delle società che l’hanno preceduto, pretendendo dalla componente femminile lavoro a buon mercato o addirittura estorcendo lavoro gratuito. Ci riferiamo al fatto che le donne giocano un ruolo di primo piano nel cosiddetto esercito industriale di riserva, vengono assorbite ed espulse dal mercato senza soluzione di continuità e, per giunta, sono gravate dal lavoro domestico, che ancora viene largamente considerato come un onere che deve ricadere praticamente solo sulle spalle della “donna di casa”, madre, moglie, figlia o sorella che sia.
Per queste ragioni pensiamo che nessuna emancipazione sia possibile senza rimuovere in prima istanza gli impedimenti materiali che la determinano, senza cioè che sia garantito alla donna un degno salario, servizi sociali che consentano effettivamente di liberarsi del lavoro di cura (ospedali, asili nido, ecc.), soluzioni abitative alternative e gratuite, necessarie a sottrarsi a eventuali violenze e abusi che spesso si perpetuano tra le mura domestiche, consultori e sportelli medico-legali in grado di sostenerne le scelte nel campo della riproduzione, dell’interruzione e della prevenzione delle gravidanze, ecc.
Ovviamente lo sfruttamento e la subordinazione non si esauriscono nel piano materiale (alle donne viene ancora oggi negata la piena libertà sul loro corpo e sulla loro sessualità, sono oggetto di rappresentazioni inferiorizzanti e di violenza psicologica) per questa ragione alla battaglia su questo fronte, sui diritti, sul salario, sull’accesso ai servizi sociali, va associata una battaglia sul piano culturale, che alimenti la consapevolezza della propria condizione e faccia sì che si possano progettare collettivamente i percorsi efficaci per superarla.
Nell’ambito di questa battaglia uno degli strumenti possibili da impiegare è quello dell’equa rappresentanza, nello spirito e seguendo l’esempio delle compagne curde, necessaria a rendere visibile all’esterno, nel discorso pubblico, la nostra realtà per quella che è: fatta di uomini e di donne che lottano assieme, senza gerarchie né primati, senza bisogno di essere “relegati” in settori d’appartenenza. Se è vero che troppo spesso, purtroppo, negli ultimi decenni, le “questioni di genere” sono state relegate all’ambito della pura speculazione, dell’analisi del fenomeno in ambiti ristretti, affrontate con un linguaggio spesso inutilmente complesso e che parlava a pochi, è anche vero che, negli ultimi anni sembra essersi diffusa (non solo tra élite intellettuali, ma tra le “persone comuni”) la consapevolezza del fatto che la disuguaglianza tra i sessi non è e non può essere soltanto oggetto di un’analisi astratta e che, soprattutto, non è un capitolo chiuso, storia passata, ma una faccenda che ci riguarda e che ci riguarderà ancora se non ci si rimboccherà le maniche per far sì che le cose cambino.
In questi ultimi anni la sinistra ha scelto di affidarsi ai magistrati, sancendo così la subalternità del politico al giuridico e l’assunzione delle logiche securitarie che hanno preso corpo nella repressione degli anni Settanta. Ne siete consapevoli? E come vedete la questione? Proprio nel vostro Sud mancano i diritti elementari, ma abbondano divise, tribunali e “pompieri” del conflitto sociale che decantano la legalità borghese. È possibile sbarazzarsi di questa zavorra che impedisce ogni reale contatto con la massa degli esclusi?
Soprattutto qui al Sud un giorno sì e l’altro pure si sente parlare di “emergenza sicurezza”: camorra, mafia, ’ndrangheta sono una realtà pervasiva e il loro controllo del territorio è sicuramente un ostacolo bello grosso a chi come noi è impegnato nella trasformazione dell’esistente. La soluzione proposta dai governi che si succedono è una militarizzazione della società. Già da qualche anno abbiamo i militari che pattugliano le città; negli ultimi provvedimenti legislativi sono state inserite misure di sicurezza sempre più oppressive nei luoghi pubblici (ad esempio tornelli e controlli alle stazioni ferroviarie o anche negli stadi). Le misure “antiterrorismo” sono state la precipitazione ultima di questo tipo di meccanismi.
Si susseguono le notizie dell’espulsione dei senza tetto o degli immigrati dai centri storici. È stata elaborata una specifica misura repressiva, il DASPO urbano (che viene dalla sperimentazione della repressione nelle curve degli stadi), che si è diretta già più volte contro venditori ambulanti. Tuttavia, ogni volta la reazione popolare che si sviluppa va in direzione opposta: laddove c’è la criminalizzazione da parte dello stato, si risponde con una solidarietà nei confronti di chi è considerato dalla stessa parte della barricata. Non che la logica securitaria non faccia comunque breccia. Ma al momento qui per fortuna non sfonda. Anche da questo punto di vista la criminalizzazione non riesce a sfilacciare i legami di solidarietà che sono fortunatamente più radicati di quanto qualcuno possa pensare.
Quando diciamo che “potere al popolo” significa poter decidere del proprio presente e futuro non intendiamo escludere la sicurezza. Non si tratta di materia da delegare al governo, centrale o locale che sia. Anche su queste questioni, per quanto sia complicato, bisogna esercitare il controllo popolare. Non è un caso che, storicamente, laddove i movimenti sociali e politici sono stati più forti meno spazio trovava la criminalità organizzata. Si tratta di processi e non di eventi: i tempi non saranno né immediati né brevi, ma pratiche come quelle del controllo popolare esercitato nel corso delle ultime elezioni comunali a Napoli, per contrastare palmo a palmo la presenza di camorristi, per provare a rompere il muro della paura che blocca tanti e dar loro fiducia che oltre a Stato e criminalità organizzata esiste altro, sono un buon viatico per mettersi in cammino. [segue]