di MANUELA AUSILIO –
«Il libero sviluppo delle individualità è la possibilità di sviluppare le facoltà intellettuali, l’espressione delle energie vitali, dei rapporti socievoli». Così si esprimeva Karl Marx nel Capitale, Libro I (1863-64). Ma questo è anche esattamente ciò che non si vuole per gli esseri umani in epoca capitalista. In generale, diceva Marx, si cerca di sviluppare la forza produttiva e tecnologica al solo fine di «abbreviare la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per sé stesso, per prolungare (..) la parte (..) nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista» (Il capitale. Libro I, La Nuova Italia 1969, 360-61).
Ecco perché l’obiettivo immediato dei lavoratori, per Marx, era la riduzione della giornata di lavoro a parità di salario: per iniziare a riprendersi il tempo utile non solo a «recuperare l’energia e la salute alla classe lavoratrice», ma anche per «fornire ad essa la possibilità di sviluppo intellettuale, di relazioni e attività sociali e politiche» (Marx, Risoluzioni del congresso di Ginevra, 1866, in M. Musto, Lavoratori di tutto il mondo unitevi, 2014).
È infatti questo «il tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per la libera espressione delle energie vitali, fisiche e mentali». Considerati dai capitalisti «fronzoli puri e semplici», per Marx questi sarebbero stati invece gli elementi fondativi della nuova società comunista (Il capitale cit., p. 300).
Già nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica o Grundrisse (1857) scriveva che ciò avrebbe favorito «il libero sviluppo delle individualità», ovvero «la formazione e lo sviluppo artistico e scientifico (..) degli individui, grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro» (Marx, Lineamenti, vol. II, p. 402 in Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1997).
Come si dovrebbero interpretare allora, da questo punto di vista, le recenti affermazioni della nota attrice Anna Mazzamauro (con il plauso del presentatore che la intervistava) per cui tutto sommato se i lavoratori dello spettacolo lavorano in modo non retribuito non è un gran danno, anzi ciò li rende simpatici e li spinge a lottare di più? L’affermazione che nel mondo della cultura si lavora per “passione”?
Per comprendere cosa implica questo argomento bisogna cercare di analizzare cosa “rappresentano” questi lavoratori della cultura e dello spettacolo. Sono i lavoratori che con più evidenza appaiono come quelli che hanno avuto il tempo di svilupparsi intellettualmente, e contemporaneamente, il cui prodotto del lavoro non appare immediatamente come merce-valore di profitto, ma “arte”, fornendo nel contempo al capitalismo la sverniciatina ipocrita del mondo migliore che lascia spazio “alla libera espressione”, allo sviluppo intellettuale generale dell’essere umano (che bello).
L’attacco ai diritti di questi lavoratori è quindi duplice: lavorare gratis è il prezzo da pagare per la colpa di essersi potuti sviluppare culturalmente, e in secondo luogo per quella di “rappresentare” produttori di beni che (ahinoi!) non appaiono immediatamente come valore di scambio. È soprattutto quest’ultima rappresentazione che il capitale deve distruggere nell’immaginario, per disincentivare pericolosi ambiziosi/e dal volere diventare lavoratori della cultura!
Queste lavoratrici e questi lavoratori, allora, devono apparire (non si lamentino!) come “pochi eletti” che per “passione” hanno scelto la via originale dell’arte (come se dietro l’arte non ci fossero sempre ore di lavoro per produrla). E dunque:
1) la loro condizione è eccezionale (non si pensi di mettersi tutti a cercare di lavorare con la cultura!). In questo emerge l’aspetto coercitivo e strisciantemente autoritario del capitalismo.
2) proprio in quanto mossa dalla “passione eccezione”, la loro condizione di lavoro non è inquadrabile entro le norme consuete dei diritti di retribuzione. E in effetti, ad oggi è così.
Cosa si ottiene?
Si ottiene il risultato di rendere la via del lavoro culturale sempre meno desiderabile, squalificando e alienando i diritti dei suoi operatori mentre li si esalta come “figure eccezionali”. Si fa passare per “normalità” l’idea che, poiché l’“arte” non ha prezzo, allora il suo “valore” non è commensurabile in ore di lavoro e quindi salario.
La formazione intellettuale e lo sviluppo artistico-scientifico della personalità umana devono rimanere delle eccezionalità, e condizioni non desiderabili nel mondo capitalista, dato che al tempo di lavoro divenuto libero il capitalista fa corrispondere la (bellissima!) mancanza di retribuzione, la precarietà, la normalità della prestazione lavorativa gratuita, dell’estensione della giornata lavorativa, ecc.
Così, nell’immaginario terrorizzato del senso comune, lavorare con la cultura vuol dire eccezionalità e povertà. Chi aspirerebbe a una simile condizione? D’altra parte, che vuoi fare, hai scelto la via della “passione”, ora devi pedalare!
L’attacco al lavoratore della cultura e dello spettacolo è un gravissimo e subdolo attacco più generale alla possibilità di noi tutti di rappresentarci, immaginare e realizzare, una condizione di lavoro a misura di essere umano. Ovvero una condizione futura che ci consenta di avere del tempo libero sufficiente da dedicare al nostro sviluppo intellettuale e morale come esseri umani. E il cui prodotto del lavoro non possa essere immediatamente commensurato in termini di valore di scambio e quindi di profitto (appropriazione di ricchezza privata frutto di extra-lavoro non pagato).
Non è solo un attacco alle condizioni di lavoro di singoli lavoratori, ma è insieme l’attacco a un’idea di lavoro libero e non sfruttato, di una condizione di lavoro non alienata e della società umana (e davvero civile, non solo ipocritamente) che quel tipo di lavoro rappresenta.
È allora davvero importante battersi con energia, attenzione, cura e sensibilità per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori della cultura e dello spettacolo. Non perché facciano un lavoro “eccezionale” mosso dall’“arte” e dalla “passione”, che è vuota retorica cui ognuno può dare il significato che crede. Ma perché, davvero, in ognuno e ognuna di loro si aggrava la condizione di alienazione e sfruttamento di noi lavoratori della società capitalista colpendo, insieme, il nostro sogno che tutto questo un giorno non accadrà più. Mai più.