di Leonardo Marzorati –
Riccardo Lombardi è stato uno dei maggiori interpreti del socialismo italiano. La sua visione socialista e democratica, molto diffusa durante la Resistenza tra i partigiani di Giustizia e Libertà, Brigate Matteotti e Brigate Garibaldi, al termine della Seconda Guerra Mondiale quasi evaporò sul piano del consenso nazionale, stretta nella tenaglia DC-PCI.
Se da un lato DC, liberali e monarchici bloccarono, al termine della guerra, ogni spinta propulsiva di rivoluzione democratica, dall’altro il partito guidato da Palmiro Togliatti non lavorò certo per favorirla. Togliatti era fedele alle direttive dell’Urss di Stalin, che, a Jalta e poi a Potsdam, aveva contribuito alla spartizione del mondo industrializzato nelle due sfere di influenza. L’Italia finì nella sfera di influenza statunitense e questo le impedì una svolta socialista, che fosse autoritaria come nei Paesi dell’Est Europa o democratica come auspicava Lombardi. La sostituzione alla Presidenza del Consiglio nel 1945 dell’azionista Ferruccio Parri con Alcide De Gasperi fu il primo grande segnale politico dell’influenza statunitense in Italia. Comunisti e socialisti in questo cambio non opposero particolare resistenza.
Il PCI nel biennio della Costituente, pur avendo un peso politico leggermente inferiore a quello del PSIUP (socialisti di Pietro Nenni e Movimento di Unità Proletaria di Lelio Basso), riuscì a diventare ago della bilancia dei governi De Gasperi. Togliatti fu l’artefice dell’amnistia per i fascisti, a cui Lombardi si oppose fortemente, e dell’inserimento in Costituzione del Concordato del 1929, scavalcando a destra socialisti, azionisti e liberali, per votare con democristiani, qualunquisti e monarchici il cattolicesimo religione di Stato.
Alle elezioni del 1948 Togliatti era ben conscio che il Fronte Popolare non avrebbe avuto possibilità di vittoria. Per due ragioni: la prima è che i giochi internazionali non lo permettevano; la seconda è che, come avevano espresso le elezioni della Costituente, le sinistre non avrebbero mai raggiunto la maggioranza, specie dopo la scissione di Palazzo Barberini tra socialisti e socialdemocratici. Nel 1946 la DC prese il 35,21%, che sommato ai voti di liberali, monarchici e qualunquisti portava il blocco anticomunista alla soglia del 50%. PCI e PSIUP (da cui doveva ancora fuoriuscire Giuseppe Saragat) si fermavano al 40%. Con il 4,36%, il PRI si definiva allora lontano da entrambi i blocchi, ma più per propaganda, essendo un partito europeista e filo-occidentale. Il Partito d’Azione, l’unico fautore di un socialismo democratico distante sia dal capitalismo di Stato sovietico (come lo definì Lombardi), come dal liberalismo statunitense, prese l’1,47% e di fatto terminò la sua esistenza.
In questo clima politico, il PCI si mosse con grande astuzia, grazie alla cinica ma vincente strategia politica imposta da Palmiro Togliatti. Il leader del PCI sapeva bene che avrebbe perso le elezioni del ’48 e lavorò quindi per omologare il più possibile ogni forma di opposizione al suo partito. Questo lavoro di Togliatti era implicitamente apprezzato anche da De Gasperi, il quale avrebbe governato con il principale partito rivale relegato all’opposizione. Togliatti sfruttò al meglio, fino ai fatti di Ungheria del 1956, la sudditanza del leader socialista Nenni. Conscio della sconfitta, Togliatti riuscì a far sì che gli eletti del Fronte Popolare fossero due terzi comunisti e solo un terzo socialista, relegando così il PSI a un ruolo marginale, schiacciato anche in parlamento tra i due grandi partiti della Prima Repubblica: DC e PCI.
Se la sconfitta del 1948 non intaccò minimamente la dirigenza del PCI, il PSI si ritrovò con le ossa rotte. Al XXVII Congresso, la corrente autonomista del partito, guidata da Lombardi, riuscì a battere i nenniani e far eleggere Alberto Jacometti segretario. La segreteria di Jacometti durò un solo anno. Nel 1949, al XXVIII Congresso, Nenni tornò segretario, grazie anche a voti di militanti comunisti iscritti per l’occorrenza al PSI. Grazie alle truppe cammellate comuniste, la strategia di Togliatti e di Mosca vinse sull’autonomia socialista di Lombardi. La partitocrazia italiana iniziò così: una maggioranza e un’opposizione immobili, pronte ad attaccarsi anche aspramente sui giornali, sui manifesti elettorali e poi anche in tv, ma di fatto d’accordo su molti punti nella spartizione del potere.
La situazione attuale italiana, nonostante la fine della Guerra Fredda, ha molti aspetti comuni a quelli del secondo dopoguerra. Tutti i sondaggi danno in netto vantaggio la coalizione di destra a guida Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Se si andasse a votare, con molte probabilità avrebbero la maggioranza. La principale forza della prossima opposizione, il PD, ricorda molto il PCI di Togliatti. Non per le posizioni politiche (magari!), ma per il suo tentativo, abbastanza riuscito, di omologare attorno a sé ogni forma di opposizione al duo Salvini-Meloni. Il movimento, per nulla spontaneo, delle Sardine ne è la prova. Il messaggio del PD e dei suoi cespugli specchietti per le allodole (vedi Elly Schlein) è chiaro: “Se non sei un fascista come la Meloni o un razzista come Salvini devi votare per noi”. Le ultime elezioni regionali in Emilia Romagna hanno dato ragione a questa strategia, che ha difatti disintegrato ogni formazione politica esterna a questi due nuovi “blocchi”. Unica nota positiva di questi due pessimi blocchi è la morte politica di Italia Viva di Matteo Renzi.
La sinistra radicale è stata annichilita, per l’ennesima volta, dalla favoletta del voto utile. Il Movimento 5 Stelle, già debole di suo nel voto regionale, è stato marginalizzato dalla sfida Bonaccini-Borgonzoni. Destre e PD sono pronte, come lo furono DC e PCI, alla spartizione di potere. Grande differenza rispetto al passato è l’alternanza tra le due forze. Il PD potrà tranquillamente stare 5 anni all’opposizione, per poi tentare di tornare al governo.
I veri socialisti italiani, non gli scappati di casa alla Nencini, devono ragionare su come affrontare le prossime sfide politiche ed elettorali. Non schiavi della UE, come il PD e come purtroppo si stanno rivelando gli attuali vertici 5 Stelle, ma per una lotta nazionale ed europea al socialismo. Partendo proprio dal pensiero sull’Europa di Lombardi, che già nel 1957 si astenne, scettico, sulla CEE.
I socialisti oggi devono cercare di allearsi con i comunisti e con le forze democratiche, antieuriste che mettono il lavoro e la dignità dell’uomo al centro della lotta politica. Alle prossime elezioni ci dovrà essere un cartello politico per il Socialismo, che si opponga alla tenaglia reazionario-liberale rappresentata dai blocchi Lega-FdI e PD. Si potrà quindi decidere se andare da soli o con quello che potrebbe essere, anche alla prossima tornata elettorale, il terzo incomodo: quel Movimento 5 Stelle che è sempre stato su posizioni più a sinistra del PD e che, nonostante i suoi tanti errori, resta una forza politica caratterizzata oggi da un elettorato popolare affine a quello che dal 1892 ha dato linfa vitale ai socialisti. Il Movimento 5 Stelle però dovrebbe liberarsi dell’attuale leadership “centrista”, prima alleata della Lega e poi del PD. Per questo, da radicalsocialista, presto attenzione alla figura di Alessandro Di Battista, l’unico che oggi potrebbe ridare fiato a un partito che ha perso leadership e direzione politica. Starà poi allo stesso Di Battista, se dovesse riuscire a prendere le redini del Movimento 5 Stelle, scegliere i propri alleati. Visto il suo genuino astio verso la destra, verso la tecnocrazia di Bruxelles e verso i suoi galoppini italiani ora al governo a Roma, le sinistre popolari potrebbero avvicinarsi a lui.
Lo spazio per l’autonomia socialista ci deve essere e spetta a noi compagni trovarlo.
Leonardo Marzorati