di GIANCARLO IACCHINI e VALENTINA PENNACCHINI –
1) Cambiare la Costituzione è certamente possibile, ma non dovrebbe farlo né un Parlamento frutto di una legge elettorale incostituzionale (il Porcellum), né un governo nato in seguito ad una crisi extraparlamentare – la manovra di palazzo che ha decretato la fine del governo Letta – nel modo squallido che tutti ricordano («Enrico sta sereno!», «Mai al governo senza elezioni!»). E nemmeno si dovrebbe fare a colpi di maggioranza, una “maggioranza” espressione peraltro di quella minoranza che si reca ancora alle urne.
2) I nuovi articoli sono scritti malissimo, in un burocratese prolisso e incomprensibile, con continui richiami a commi e cavilli indegni di una Costituzione (vedi l’art. 70).
3) Tra tutte le proposte di cambiamento istituzionale avanzate negli anni (riduzione dei parlamentari, abolizione pura e semplice del Senato, presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato forte, ecc.) questa è senza alcun dubbio la più pasticciata e incomprensibile: il Senato resta, insieme al bicameralismo (non più perfetto ma infinitamente più confuso dell’attuale: vedi ancora il delirante articolo 70) ed è abolito solo il diritto dei cittadini ad esercitare la propria sovranità attraverso il voto. Il Senato segue dunque la triste sorte delle province: in attesa della loro definitiva abolizione, il disegno di legge Delrio toglie loro poteri, ne abolisce l’elezione diretta e trasforma i consigli provinciali in assemblee “clandestine” dei sindaci (molti dei quali saranno costretti a fare di tutto tranne ciò per cui son stati eletti dai cittadini).
4) Al contrario di quel che avviene in Germania, il nuovo Senato sarà formato da sindaci e consiglieri regionali che non rappresenteranno affatto i territori di provenienza e tanto meno i cittadini (che li hanno sì eletti, ma per far altro), visto che saranno scelti dai partiti in un contesto in cui le competenze delle Regioni (tranne, chissà perché, quelle a statuto speciale) vengono di molto ridotte.
5) Il rapporto tra lo svilimento del Senato («conterà poco e si riunirà una o due volte al mese», assicura Renzi quasi fosse una consolazione) e le grandi responsabilità che la nuova Costituzione beffardamente gli attribuisce (vedi le politiche europee) appare schizofrenico e grottesco. I “dopolavoristi” dei consigli regionali non avranno il tempo materiale di occuparsi con la dovuta serietà e attenzione di argomenti così importanti e delicati, e tantomeno di sindacare su tutte le leggi sfornate dalla Camera, che in teoria possono essere emendate dal Senato; a meno che una minoranza di “un terzo” (che sembra disegnata apposta sull’attuale tripolarismo), in vena di ostruzionismo, non voglia ostacolare intenzionalmente il lavoro parlamentare: e ci riuscirebbe benissimo.
6) Una maggioranza omogenea alle due Camere non è affatto garantita da questa riforma, che paradossalmente fa della governabilità (a scapito della rappresentatività ) il proprio vessillo, mentre la pseudo-semplificazione dell’iter legislativo crea in realtà i presupposti per una serie infinita di conflitti procedurali e di attribuzione tra le due Camere e tra il Parlamento e le Regioni.
7) Una riforma del genere non solo non risolverà alcun problema reale del Paese, ma nemmeno quelli istituzionali: per evitare maggioranze diverse tra le due camere sarebbe bastata una legge elettorale uniforme (cosa che non c’è mai stata fino ad ora, per via di un malinteso concetto di “federalismo” che ha reso ingovernabile il Senato); e per accelerare l’iter legislativo (ammesso che ne abbia bisogno il Paese che sforna più leggi di ogni altro stato d’Europa!) sarebbe sufficiente far lavorare di più i parlamentari, la cui settimana di “lavoro” dura spesso 2 soli giorni effettivi! Anche col bicameralismo paritario (che è una forma di garanzia e controllo), se le maggioranze sono omogenee e compatte bastano “due giorni” per approvare una buona legge.
8) Non ha senso ridurre a 100 i senatori senza diminuire il numero abnorme dei deputati (630): così il contrasto fra le due camere risulta ancora più irrazionale. A quel punto sarebbe stato più semplice e dignitoso abolirlo del tutto, il Senato!
9) Se si vuole ridimensionare il ruolo delle Regioni, con l’abolizione della potestà legislativa concorrente e l’introduzione della “clausola di supremazia”, è illogico mantenere in vita quelle a statuto speciale. E se si vuole davvero garantire “parità di trattamento” a tutti i cittadini – attualmente divisi tra Regioni “virtuose” (magari perché ricche) e Regioni “in deficit” (magari perché povere e disagiate) – perché lasciare in capo alle Regioni la tutela del primo e fondamentale diritto, cioè quello alla salute?
10) Anche lo sbandierato contenimento dei costi della politica, peraltro difficilmente quantificabile, è comunque poca cosa rispetto a quanto si sarebbe potuto ottenere attraverso la riduzione del numero dei parlamentari (di entrambe le camere!), nonché degli stipendi e delle indennità (il rinvio in commissione della proposta di legge Lombardi la dice lunga sulla reale volontà di dare un segnale in tal senso), e appunto l’eliminazione delle Regioni a statuto speciale.
11) Se c’è un istituto ormai insopportabile è l’immunità parlamentare: ebbene, la riforma estende questo assurdo privilegio anche a consiglieri regionali e sindaci che andranno in Senato.
12) Sono stati cancellati i senatori a vita, personalità prestigiose che hanno dato lustro all’Italia. Legittimo, ma anche qui si trova la compensazione del tutto priva di senso: il presidente della Repubblica può continuare a scegliere 5 persone da mandare “temporaneamente” in Senato: perché? A quale titolo? In base a quale criterio, visto che adesso il Senato “dovrebbe” essere un’assemblea delle regioni? Quale territorio rappresenteranno quei 5 beneficiati, il cortile del Quirinale?
13) Il presidente della Repubblica, che dovrebbe essere super partes ed eletto con una larghissima maggioranza, potrà essere scelto dal solo governo al settimo scrutinio, quando cioè basteranno i 3/5 “dei votanti” (magari meno dei voti necessari al governo per ottenere la fiducia).
14) Se è vero, come dice furbescamente Renzi, che nessun articolo della riforma aumenta esplicitamente i poteri del premier, questo rafforzamento nei fatti c’è ed è innegabile, visto lo svilimento del Senato, le nuove modalità di elezione del Capo dello Stato, la “clausola di supremazia” che annienta le competenze delle Regioni, il potere di nomina dei vertici della Rai ed una legge elettorale come l’Italicum che consegna tutto il potere non più alla coalizione ma ad un unico partito (in una situazione in cui i partiti sono ormai guidati da un unico leader).
15) Sembra anzi che Renzi abbia recepito in pieno il messaggio che a più voci è stato lanciato dai “poteri forti”. Tra i grandi sostenitori della riforma, oltre all’Unione Europea e agli USA, vi è pure JP Morgan che nel 2013 faceva notare come le Carte costituzionali vigenti in alcuni Paesi siano un impaccio per il sistema finanziario globale; esso mira infatti alla “governabilità”, non alla democrazia o alla tutela dei diritti sociali. Secondo JP Morgan, i sistemi politici instaurati in Europa in seguito alla caduta del fascismo mostrano una forte influenza delle idee socialiste e sono caratterizzati da esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti e dei poteri locali, da eccessive tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori e (addirittura!) dal riconoscimento del diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi al “popolo” che detiene la sovranità. La riforma ha fatto puntualmente tesoro di queste preziose indicazioni del sistema finanziario internazionale e le ha tradotte nella pessima forma che conosciamo.
16) A questo punto appare chiara la falsità della rassicurazione secondo cui “la riforma non tocca la prima parte della Costituzione, cioè i principi fondamentali”: tutto l’impianto della riforma, abbinato alla nuova legge elettorale, mette pesantemente in discussione proprio l’articolo uno (“la sovranità appartiene al popolo”), visto che i cittadini non eleggeranno più né le province, né il Senato né metà dei deputati, e visto che anche regioni e comuni (dove vige l’elezione diretta di sindaci e governatori) conteranno molto meno in virtù della “clausola di supremazia”.
17) Inoltre il ricorso all’istituto referendario viene di fatto impedito: per abbassare il quorum (come invocato da molti) serviranno beffardamente 800mila firme invece delle 500mila attuali, ma se già raccoglierne 500mila è attualmente difficilissimo, arrivare a 800mila sarà quasi impossibile); e per la presentazione dei progetti di legge di iniziativa popolare le firme necessarie sono addirittura triplicate (da 50mila a 150mila) in cambio della generica promessa che saranno esaminati, ma senza fissare tempi certi né alcuna scadenza precisa (a parte il fatto che una maggioranza ostile potrebbe ovviamente bocciarli all’istante). Quanto ai referendum propositivi e di indirizzo, vengono solo promessi e rimandati ad una legge successiva, e cioè destinati a rimanere sulla carta.
18) Che il fronte del NO sia variegato e contraddittorio (come viene “accusato” di essere dai suoi avversari) è più che normale in caso di referendum, ma lo è anche l’opposizione in Parlamento (c’è quella di destra e quella di sinistra; e agli smemorati ricordiamo che nella prima repubblica comunisti del Pci e neofascisti del Msi votavano quasi sempre insieme, senza che nessuno se ne stupisse trattandosi appunto di due opposizioni).
19) Molto più strana è la schizofrenia dentro il fronte del sì, cioè il fatto che chi ha pensato e scritto questa “meravigliosa” riforma, presentata come la panacea di tutti i mali, manifesti idee così diverse sul che fare dopo un’eventuale (malaugurata) vittoria referendaria: perché c’è chi è disposto (pochi per la verità) a tenersi davvero un mostro giuridico come il nuovo Senato e chi invece vorrebbe ancora cambiare e “migliorare” ad libitum, peraltro nei modi più diversi (si vedano ad esempio le difficoltà subito incontrate nel rimetter mano ad una legge elettorale appena approvata e considerata fino a due mesi fa “la migliore del mondo”).
20) «Intanto cambiamo!», esortano gli scatenati “riformatori” del nulla, perché «altrimenti resterà tutto così com’è per almeno 20 anni». Le prove di questo ventilato immobilismo se vincerà il NO? Ovviamente nessuna. Il cambiamento in meglio lo vogliamo tutti, ma se c’è il rischio – anzi in questo caso la certezza – di cambiare in peggio (e stiamo parlando della nostra Costituzione!) tanto vale non cambiare affatto. Chi demolirebbe la casa in cui abita perché non gli piacciono più le piastrelle del bagno? Ed anche ammesso che serva una casa nuova, dovremmo acquistare la prima catapecchia che ci propongono, tanto per “cambiare”? Sulla bocca di questi ineffabili “riformisti”, la parola “cambiamento” ha perso ogni significato reale, come del resto tante altre parole a cominciare da quelle più importanti: “democratico” e “democrazia”. E per esorcizzare certe “parolacce” che meglio definirebbero fatti e azioni reali, si ricorre continuamente all’inglese: “Jobs Act”, “Bail in”, “Spending review”, “Voluntary Disclosure”, and so on. Tutta quest’ansia di stravolgere la Costituzione noi non la sentiamo affatto: le uniche cose da cambiare con urgenza sono la situazione economico-sociale del Paese e gli attuali governanti, che affrontano la crisi dell’occupazione, dei redditi e dei consumi con ricette completamente sbagliate. Non sarà certo la modifica del Senato, o l’abolizione dell’ininfluente Cnel, a contribuire anche minimamente alla ripresa dell’economia e all’aumento della giustizia sociale in Italia. E l’avere esasperato lo scontro su una“riforma” così ridicola e limitata, presentando il referendum come una sorta di ultima spiaggia (errore che fanno entrambi i fronti), è colpa in primis di chi questa sfida l’ha voluta e cominciata: per ambizione personale, ripicca contro i cosiddetti “gufi” e smisurata arroganza e sete di potere.
(Giancarlo Iacchini e Valentina Pennacchini – insegnanti di storia e filosofia)