Finalmente sconfitto il Pd (quello di Renzi e quello… di prima)

Il voto del 4 marzo ha dato una mazzata decisiva al Pd in tutte le sue versioni: quella attuale (Renzi e la sua insopportabile claque, arrogante e presuntuosa); quella “futuribile” (Gentiloni, Minniti, Calenda), trascinata nel burrone dalle nefandezze del “giglio magico” da cui avrebbe voluto smarcarsi; e quella vecchia (Bersani e D’Alema), che ha pagato l’impotenza e le scellerate politiche neoliberistiche del “centrosinistra” prerenziano. Non è apparso credibile, infatti, il pallido tentativo dei “rottamati” di recuperare fuori tempo massimo generiche posizioni di “sinistra”, per poi magari riappropriarsi della “ditta” e riprendere come niente fosse le formidabili “riforme” uliviste che, ben prima dell’opera devastatrice del bullo di Firenze, avevano pesantemente intaccato lo stato sociale e i diritti dei lavoratori.

Con la semicomica benedizione cardinalizia di un improbabile “capo politico” uscito in extremis dallo stesso Pd – che sembrava stesse apprendendo lì per lì, come uno scolaro imbranato, cosa fosse “la sinistra” – un pugno di generali senza esercito (Mdp) ha cercato di salvare le proprie carriere arruolando come carne da macello qualche fante (Sinistra Italiana) per muovere guerra al giovane e cinico rottamatore, ma in questo gioco degli specchi è stato inesorabilmente travolto dal crollo della casa comune, insieme all’altra sponda uguale e contraria di cui si avvaleva il Pd: il partito “moderato” (sic) di un sempre più rintronato Berlusconi. Espulso dal popolo italiano, che gli ha sventolato in faccia il cartellino rosso dopo averlo già ammonito al referendum, Renzi (sbruffone come al solito) esce dal campo portandosi via il pallone, per impedire che al suo partito venga in mente di giocare con altri schemi nelle prossime delicatissime settimane.

Restano in campo, entrambi vincitori, i prodotti della paura (Salvini) e della speranza (M5S), tra le quali si è diviso l’elettorato, scindendosi tra una rabbiosa quanto illusoria difesa delle “protezioni” nazionalistiche, dettata dal timore dei migranti e di chi sta peggio, ed una voglia di cambiamento da interpretare come un enorme, corale “vaffanculo” urlato al vecchio ceto politico. Né le prime incerte esperienze amministrative dei 5Stelle, né il surreale bombardamento mediatico scatenato contro di loro dal giornalismo di regime, né la svolta governista e “rassicurante” impersonata dal candidato premier Di Maio, né tantomeno il dilettantismo di furbetti e disonesti che danneggiavano innanzitutto il Movimento, e che sono stati subito messi alla porta, ha potuto frenare quest’ansia di cambiare radicalmente il quadro politico. Ed è ben difficile negare che una buona parte del popolo di sinistra abbia visto nel M5S lo strumento più potente e più immediato per colpire la “casta” di governo e di potere.

In queste condizioni, i margini di manovra di una nuova sinistra alternativa erano oggettivamente assai ridotti. Nonostante il miracolo organizzativo e le entusiasmanti esperienze vissute in questa intensa campagna elettorale, dalla raccolta firme alle centinaia di affollate assemblee, Potere al Popolo ottiene un risultato che se supera la barriera anche psicologica dell’irrilevanza (l’uno per cento), rappresenta una cocente delusione per i tanti militanti che avevano sperato in un crescendo rossiniano e perfino nel superamento della soglia di sbarramento fissata al 3%, a smentita dei sondaggi-fantasma che tardavano a “rilevare” la nuova lista. Che tutta la partecipazione anche da noi sperimentata con passione ed entusiasmo negli ultimi due mesi si sia tradotta in un risultato così modesto può risultare demoralizzante, ma appunto non si può ignorare il fatto che – in questo frangente storico e politico – il bisogno di cambiamenti immediati anche sul piano sociale si è riversato sul Movimento 5Stelle, in termini cioè di governo e non di opposizione, piaccia o non piaccia ai teorici “ortodossi” della sinistra radicale.

Adesso, una legge elettorale congegnata apposta per non far vincere nessuno, e favorire gli inciuci centristi, impedisce sia alla “paura” che alla “speranza” di trasformarsi in governo del Paese. Non è un bene, perché è delittuoso prendere in giro 40 milioni di italiani, mandandoli a votare per i “simbolini” su schede-lenzuolo senza poter decidere direttamente né i parlamentari né i governanti. Andremo incontro a settimane di convulsioni febbrili della politica italiana, con la seria possibilità di tornare alle urne nel giro di poco tempo, visto che lo stesso epilogo “inciucista” e moderato è stato spazzato via dalla polarizzazione del voto popolare.

Quanto alla sinistra, è chiamata a continuare il processo di ricostruzione appena avviato, con la massima apertura possibile ma anche tenendo fermi i punti di non ritorno che si sono determinati, dopo la fine ingloriosa del Brancaccio e la nascita di Potere al Popolo. L’impasse istituzionale della politica di Palazzo potrebbe offrire ad una sinistra nuova e popolare ravvicinate occasioni di crescita e consolidamento. Ma le grandi idee, valori e ideali a cui ci richiamiamo non si possono certo confinare nel recinto di un uno-per-cento, e nemmeno del 3 o del 5. Essi camminano nella società su molte gambe, e dentro molte teste e molti cuori. La totale debacle della classe politica che finora aveva egemonizzato (e screditato) la sinistra italiana deve diventare l’occasione per ripartire dal basso, con rinnovato coraggio e determinazione. Indietro ormai non si torna.

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