Capitalismo: impedire che la crisi strutturale diventi barbarie e macerie

di ANSELM JAPPE

Perché il sistema capitalistico non è ancora crollato? Principalmente grazie alla “finanziarizzazione”, vale a dire, la fuga nel “capitale fittizio” (Marx). Dopo che l’accumulazione reale è arrivata quasi a fermarsi (la decisione degli Stati Uniti di abbandonare, nel 1971, il gold standard per il dollaro, è stata una sorta di data simbolica per questo) il sempre maggiore ricorso al credito ha permesso di perpetuare un’accumulazione simulata. Nel sistema creditizio, gli attesi profitti futuri, che non verranno mai realizzati, sono già stati consumati per tenere a galla l’economia. Com’è ben noto, il credito e le altre forme di denaro fittizio (come i valori azionari e i prezzi immobiliari) hanno raggiunto proporzioni astronomiche ed hanno foraggiato una gigantesca speculazione che potrebbe avere, come nel 2008, terribili ripercussioni sull’economia “reale”.

Comunque, lungi dall’essere la causa delle crisi capitaliste e della crescente povertà, la speculazione è servita a permettere di rinviare la grande crisi. Essa è causata dal fatto che, sebbene proliferino in quantità sempre maggiori, tutte le merci e i servizi addizionali rappresentano una quantità sempre più bassa di valore. Questo implica anche che una gran parte del denaro nella circolazione globale, è “fittizio” perché non rappresenta più il lavoro che viene speso per la “produttività”. Tutte le misure per “rimettere in moto”, prese dai governi dopo la crisi del 2008, sono quindi solo acrobazie contabili, per cui viene aggiunto un altro zero a dei numeri che sono già delle complete fantasie. Non ci può essere nessuna nuova prosperità capitalista dal momento che le tecnologie che hanno rimpiazzato il lavoro non possono essere eliminate dalla produzione capitalista.

Altrettanto inutile sarebbe aspettarsi dalla Cina o da qualsiasi altro “paese emergente” un salvataggio del capitalismo. I loro supposti successi economici sono in parte basati su una crescita del costo delle materie prime ed in parte su un’esportazione unilaterale verso i paesi ricchi che durerà solo fino a quando questi stessi paesi riusciranno a rimandare a casa loro l’irruzione reale della crisi. Non è perciò questione di predire un qualche futuro crollo del capitalismo, ma si tratta di riconoscere che la crisi ha già avuto luogo e che andrà sempre peggio, nonostante i recuperi a breve termine. E’ una crisi che è lontana dall’essere solamente economica. Essa comporta tutta una serie di sconvolgimenti, dalle nuove forme di guerra fino agli effetti devastanti sulla psiche a livello individuale (le sparatorie nelle scuole costituiscono una manifestazione particolarmente vivida della “pulsione di morte” nel cuore del capitalismo).

La critica del valore è dunque una critica radicale dell’intero capitalismo e non solo della sua fase neoliberale (anche se gli autori della critica del valore ne sono stati i più virulenti critici negli anni ’90, mentre la sinistra sembrava o paralizzata o affascinata). E’ impossibile ritornare al pieno impiego e alle politiche keynesiane, ai grandi interventi di Stato e al sistema di welfare di un tempo. Sono stati abbandonati perché l’intera dinamica capitalista era col fiato corto, e non a causa di una cospirazione guidata dagli economisti neoliberisti e dai capitalisti più avidi. Inoltre, un ritorno a tali politiche non sarebbe nemmeno auspicabile. Il capitalismo deve essere superato abolendo le sue fondamenta, non ritornando a forme apparentemente più tollerabili di schiavitù e di alienazione.

Ovviamente, rimane la questione su come uscire dal capitalismo. Si è spesso rimproverato alla critica del valore il suo rifiuto a cedere alle pressioni a venir fuori con azioni pratiche. Allo stesso tempo, la critica del valore ha sempre rifiutato l’etichetta di “torre d’avorio”. Non è tanto questione di “sconfiggere” il capitalismo, quanto di impedire che il suo crollo, già in corso, finisca in barbarie e rovine. I movimenti sociali contro le sole banche sono senza dubbio una falsa risposta, dal momento che scambiano il sintomo per la causa. Fanno rivivere i vecchi stereotipi degli “onesti” lavoratori sfruttati dai “parassiti”. In generale, il ricorso alla “politica” (in particolare allo Stato) è impossibile, dal momento che la fine dell’accumulazione, e quindi del denaro “reale”, priva le pubbliche autorità di ogni mezzo di intervento. Per riuscire a trovare un’alternativa al capitalismo, è necessario prima mettere in discussione la natura della merce e del denaro, del lavoro e del valore, categorie che sembrano “teoriche”, ma le cui conseguenze ultimamente determinano quello che noi facciamo quotidianamente.

Anselm Jappe (Gruppo Krisis)

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