di LEONARDO MARZORATI –
Due terzi di garantiti e un terzo di non garantiti. Questa narrazione viene spesso portata avanti dai liberali. La pandemia ha penalizzato maggiormente il terzo di lavoratori non garantiti e meno i due terzi garantiti. I lavoratori dipendenti hanno continuato in molti casi a ricevere un regolare stipendio durante i mesi di lockdown. I dipendenti pubblici, additati dai liberali come i maggiormente garantiti, non hanno avuto decurtazioni dovute alla cassa integrazione o a riduzioni d’orario, lavorando nella maggior parte dei casi dalla propria abitazione. Il telelavoro ha permesso a molti dipendenti del privato, soprattutto impiegati, di svolgere la propria mansione da casa, a parità di stipendio (in alcuni casi il buono pasto è stato tolto). Ad alcuni vantaggi innegabili, come il tempo e il denaro guadagnato dal superamento del tragitto casa-lavoro, si sono aggiunti svantaggi, come l’utilizzo di utenze private per mansioni lavorative o la riduzione di vita sociale. Ad altri è però andata peggio, specie in settori duramente colpiti dalla pandemia, come la ristorazione, il turismo, la cultura e lo sport, dove le buste paga sono state molto più magre. La cassa integrazione e la riduzione d’orario hanno penalizzato parecchie categorie di lavoratori.
Gli autonomi hanno pagato il prezzo maggiore. Specie piccoli artigiani e commercianti, costretti a dover chiudere le proprie attività per parecchie settimane. Alcuni analisti hanno sfruttato l’occasione per mettere i garantiti, spesso dipinti implicitamente come parassiti, contro i non garantiti, descritti come l’anima propulsiva del Paese. Un docente universitario, già parlamentare e dirigente sindacale come Pietro Ichino, non ha perso tempo nell’additare i lavoratori della PA. Un signore che dallo Stato ha avuto importanti prebende e vantaggi, oggi se la prende con chi ha il solo privilegio di portare a casa ogni mese 1.200 euro.
Al fianco di Ichino troviamo il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, spalleggiato da diversi esponenti politici che vanno dalla Lega al Pd. Gli industriali chiedono la revoca del blocco dei licenziamenti. Difendono comprensibilmente il sistema capitalistico che li ha resi forti. Fanno notare che molti imprenditori finiranno sul lastrico se non potranno ridurre i loro organici. E i lavoratori licenziati non finiranno sul lastrico? Avranno cuscinetti come il reddito di cittadinanza, che in molti – guarda caso – vorrebbero abolire. Aiuti a chi “fa impresa” e una fetta minoritaria di popolazione ridotta alla miseria. E finché sarà minoritaria, questo modello capitalistico reggerà.
L’Italia è senz’altro spaccata, come lo sono i principali paesi europei. Ricompattare il popolo italiano è complesso, considerando che i maggiori partiti politici operano per mantenere intatte le divisioni. Pur governando insieme, Lega e Partito Democratico si spartiscono di fatto larghe fette di elettorato, asservendosi alle decisioni del presidente del Consiglio Mario Draghi e della Ue, per poi litigare su temi identitari che stuzzicano il palato di parte del ceto medio, come la difesa dei confini (tema caro all’elettorato conservatore) o lo ius soli (tema caro all’elettorato progressista). Sono perlopiù specchietti per le allodole, dato che sul tema porti chiusi le politiche attuate dall’allora ministro degli interni Matteo Salvini non si sono discostate di molto da quelle del suo predecessore, il piddino Marco Minniti, e da quelle del suo successore Luciana Lamorgese. Anche lo ius soli, che sarebbe più corretto chiamare ius culturae, viene sventolato di tanto in tanto fin dai tempi della segreteria di Matteo Renzi, ma mai messo in votazione (e ai tempi dei governi Renzi, Gentiloni e Conte II sarebbe passato, magari con qualche correzione di compromesso). Per non parlare di ridicole battaglie, come quella di spacciare la nomina di due donne a capigruppo di Camera e Senato come una vittoria femminista. Aleksandra Kollontaj si starà rivoltando nella tomba.
I due maggiori blocchi politici italiani guardano anche allo scontro tra garantiti e non, con i conservatori storicamente più sensibili agli interessi degli autonomi e con i progressisti più vicini ai dipendenti, statali e non. La divisione tra progressisti e conservatori non intacca il modello liberista che dal trattato di Maastricht a oggi domina nel nostro Continente. Il socialismo può porre fine alla contrapposizione tra dipendenti e autonomi. In uno Stato socialista, tutti i lavoratori avrebbero le garanzie che oggi sono proprie solo di alcuni.
L’ambizione e la propensione al rischio di molti lavoratori autonomi, che spesso hanno deciso di mettersi in proprio perché poco propensi al dover accettare ordini, sarà la principale forza avversa al socialismo. Contro di loro e contro i loro rappresentanti borghesi nelle istituzioni lo scontro sarà duro, ma se si vorranno ottenere vittorie sociali sarà bene affrontarli a testa alta.
La maggioranza dei lavoratori vuole la stabilità sociale, nonostante trent’anni di propaganda contro il posto fisso, con giornalisti lautamente pagati che insistevano nel farci credere che i giovani sono diversi dalle generazioni precedente. «I giovani lavoratori non vogliono il posto fisso che fu dei loro padri e nonni, ma cambiare attività di continuo»: questo è falso, vero solo in una minoranza di casi. La propaganda liberista ha impegnato le sue risorse migliori per spingere gli europei a crederlo. Curioso che i pennivendoli che si sono prestati a questa propaganda siano quasi sempre capi redattori, direttori di giornali o riviste, analisti e scrittori con ricchi contratti con le maggiori case editrici. Gli ipergarantiti spiegano ai giovani precari che la provvisorietà è bella ed è pure la loro volontà.
I Gianni Riotta della situazione sanno evidentemente leggere nel pensiero dei giovani e comprendere per il meglio quali sono le loro aspettative. Cioè una vita precaria, senza sicurezza sociale, dove alcuni riescono nella scalata sociale, mentre altri finiscono per perdersi nelle delusioni e nelle frustrazioni. Ai delusi e ai frustrati, i socialisti e tutte le forze politiche popolari devono rivolgere il loro sguardo. Sono tanti e destinati ad aumentare, specie dopo la pandemia. Il socialismo dev’essere la speranza di queste nuove masse, umiliate dal liberismo e ignorate da quella che i mass media oggi vogliono rappresentare come “la sinistra”. La parte sinistra del Parlamento dovrebbe tornare a essere spazio riservato alle forze socialiste, comuniste, repubblicane e democratiche che fanno gli interessi dei lavoratori. Da troppo tempo il Parlamento italiano non vede esponenti politici dalla parte dei lavoratori. È giunto il momento di tornare nelle istituzioni, mettendo da parte i dannosi personalismi che hanno contraddistinto gli ultimi anni della “sinistra radicale”. Il liberismo va combattuto con partiti credibili, non con qualche like sui social. Diamoci da fare.