Jean-Paul Sartre: il mio umanismo esistenzialista

Vorrei qui difendere l’esistenzialismo da un certo numero di critiche che gli sono state mosse. Innanzitutto lo si è accusato di indurre gli uomini ad un quietismo disperato, poiché, precluse tutte le soluzioni, si dovrebbe considerare in questo mondo l’azione del tutto impossibile e sfociare, come conclusione, in una filosofia contemplativa. Altri invece ci accusano di mettere in evidenza i lati peggiori dell’uomo, e di trascurare gli aspetti belli e luminosi della natura umana. Ed anche di venir meno alla solidarietà, cioè di considerare l’uomo come isolato. I cattolici inoltre ci rimproverano di negare i valori morali, visto che se sopprimiamo i comandamenti di Dio ed escludiamo valori stabiliti in eterno non resterebbe altro che la gratuità pura e semplice, per cui ognuno può fare ciò che vuole. A tutte queste critiche cerco di rispondere oggi: ecco perché ho intitolato questa mia breve esposizione «L’esistenzialismo è un umanismo».

Oggi questo termine è diventato di moda e si sente dire spesso che un musicista o un pittore è esistenzialista… A complicare le cose è il fatto che ci sono due specie di esistenzialisti: quelli cristiani, come Jaspers e Marcel, e quelli atei come Heidegger e me. In comune però hanno questo: ritengono che l’esistenza preceda l’essenza, o, se volete, che si debba partire dalla soggettività. Che significa? Quando si considera un oggetto fabbricato, come ad esempio un tagliacarte, si sa che tale oggetto è opera di un artigiano che si è ispirato a un concetto. Quindi il tagliacarte è da un lato un oggetto che si fabbrica in un certo modo e dall’altro qualcosa che ha un’utilità ben definita, tanto che non si può immaginare un uomo che faccia un tagliacarte senza che sappia a cosa debba servire. Diremo dunque, per quanto riguarda il tagliacarte, che l’essenza precede l’esistenza. Ora, se noi pensiamo a un Dio creatore, Dio è sempre concepito alla stregua di un artigiano supremo; e ammettiamo che Dio, quando crea, sa con precisione cosa crea. Così il concetto di uomo, nella mente di Dio, è come l’idea del tagliacarte nella mente del fabbricante, e Dio crea l’uomo servendosi di una tecnica determinata e ispirandosi ad una determinata concezione, così come l’artigiano che produce il tagliacarte. In tal modo l’uomo incarna un certo concetto che è nella mente di Dio. Ma se Dio non esiste, come afferma l’esistenzialismo ateo, allora c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da qualche concetto: questo essere è l’uomo. Cosa significa in questo caso che l’esistenza precede l’essenza? Significa che l’uomo innanzitutto esiste, c’è, appare nel mondo, e che si definisce dopo. L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. L’uomo in primo luogo esiste, è ciò che si slancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di progettarsi verso l’avvenire. Sarà solo in seguito, e sarà come si sarà fatto. Sarà soltanto come si concepisce e come si vuole, dopo l’esistenza: l’uomo non è altro che ciò che si fa; è ciò che avrà progettato di essere. Questo è il principio primo dell’esistenzialismo.

Ma, se veramente l’esistenza precede l’essenza, l’uomo è responsabile di quello che è. Così il primo passo dell’esistenzialismo è di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. E quando diciamo che l’uomo è responsabile di se stesso non intendiamo che sia responsabile solo della sua stretta individualità, ma che egli è responsabile di tutti gli uomini. La parola «soggettivismo» ha due significati e su questa duplicità giocano i nostri avversari. Soggettivismo vuol dire, da un lato, scelta del soggetto individuale per se stesso e, dall’altra, impossibilità per l’uomo di oltrepassare la soggettività umana. È questo secondo il senso profondo dell’esistenzialismo. Quando diciamo che l’uomo si sceglie, intendiamo che ciascuno di noi si sceglie, ma, con questo, vogliamo anche dire che ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini. Infatti non c’è uno solo dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere, non crei nello stesso tempo un’immagine dell’uomo quale noi pensiamo debba essere. Così la nostra responsabilità è molto più grande di quello che potremmo supporre, poiché coinvolge l’intera umanità. In ogni scelta personale io sono responsabile per me stesso e per tutti, creando una certa immagine dell’uomo che scelgo. Scegliendomi, io scelgo l’uomo.

Questo ci permette di comprendere ciò che sta sotto a certe parole come angoscia, abbandono, disperazione. È molto semplice. Intanto, cosa si intende per angoscia? L’esistenzialista dichiara che l’uomo è angoscia. Questo significa che l’uomo che assume un impegno – ed è consapevole di essere anche un legislatore che sceglie, nello stesso tempo, per sé e per l’intera umanità – non può sfuggire al sentimento della propria completa responsabilità. Certo, molti uomini non sono angosciati; molti uomini credono, quando agiscono, di impegnare solo se stessi; ma in verità ci si deve sempre chiedere: che cosa accadrebbe se tutti facessero altrettanto? È come se, per ogni singolo individuo, tutta l’umanità avesse gli occhi fissi su ciò che egli fa e si regolasse su ciò che egli fa. L’esistenzialismo si oppone energicamente a un certo tipo di morale laica che vorrebbe togliere di mezzo Dio con la minima spesa. L’esistenzialista, al contrario, pensa che è molto scomodo che Dio non esista, poiché con Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile; non può più esserci un bene a priori poiché non c’è nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo; non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, che bisogna essere onesti, che non si deve mentire, e per questa precisa ragione: siamo su di un piano in cui ci sono solamente degli uomini. Dostoevskij ha scritto: «Se Dio non esiste tutto è permesso». Ecco il punto di partenza dell’esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito se Dio non esiste, e di conseguenza l’uomo è «abbandonato» perché non trova fuori di sé alcuna possibilità di ancorarsi. E non trova più scuse. Se davvero l’esistenza precede l’essenza, non si potrà fornire spiegazioni riferendosi a una natura umana data e fissata; in altri termini non c’è nessun determinismo: l’uomo è libero, l’uomo è libertà. Se Dio non esiste, non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini che possano legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo più giustificazioni o scuse. Siamo soli. Situazione che mi pare di poter caratterizzare dicendo che l’uomo è condannato a essere libero. Condannato perché non si è creato da solo, e nonostante ciò libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quel che fa.

L’abbandono implica che scegliamo noi stessi il nostro essere. E va di pari passo con l’angoscia. Quanto alla disperazione, questa parola ha un senso molto semplice. Vuol dire che noi ci limiteremo a far assegnamento su ciò che dipende dalla nostra volontà o sull’insieme delle probabilità che rendono la nostra azione possibile. Prima mi devo impegnare, poi basarmi sulla formula: «Non c’è bisogno di sperare per agire». Questo non vuol dire che non debba credere in qualcosa, ma che sarò senza illusioni e che farò ciò che posso. Farò tutto quel che sarà in mio potere per realizzare i miei ideali: ma a parte questo, non posso contare su niente. La dottrina che vi presento è proprio l’opposto del quietismo e dell’inazione, perché dice: non c’è realtà che nell’azione. E va ancora più lontano, perché aggiunge: luomo non è nient’altro che quello che progetta di essere; non esiste che nella misura in cui si realizza; non è dunque nient’altro che l’insieme dei suoi atti, nient’altro che la sua vita.

Così abbiamo risposto, credo, ad alcuni rimproveri riguardanti l’esistenzialismo. Appare chiaro che non lo si può considerare come una filosofia della rassegnazione, dato che definisce l’uomo in base all’azione e all’impegno, né come una descrizione pessimistica dell’uomo: non c’è anzi dottrina più ottimistica, perché dice che il destino dell’uomo è nell’uomo stesso; né come un tentativo di scoraggiare l’uomo distogliendolo dall’operare, perché l’esistenzialismo gli dice che non si può riporre speranza se non nell’agire e che la sola cosa che consente all’uomo di vivere è l’azione. Di conseguenza abbiamo a che fare con una morale dell’azione e dell’impegno. Un’altra obiezione è la seguente: per voi i valori non sono cose serie, perché li scegliete voi stessi. A questo io rispondo: spiacenti, ma è proprio così; è pur necessario che qualcuno se li inventi, i valori! E d’altra parte dire che noi inventiamo i valori non significa altro che questo: la vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate, la vita non è nulla, sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete.

In conclusione, il nostro umanismo esistenzialista non cerca affatto di sprofondare l’uomo nella disperazione, tutt’altro. Come si è visto, l’esistenzialismo è un ottimismo, una dottrina dell’azione, e il nostro umanismo afferma che non c’è altro universo che un universo umano; perché noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro legislatore all’infuori di lui; e perché noi mostriamo che non nel rivolgersi verso se stesso, ma sempre cercando fuori di sé uno scopo – che è quella liberazione, quella realizzazione particolare – l’uomo si realizzerà come essere umano.

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