Il “nostro” liberalsocialismo (anzi l’unico)

La “riscoperta” – di per sé ovviamente encomiabile – delle radici azioniste e liberalsocialiste da parte di forze centriste e moderate come il partito di Carlo Calenda, ci costringe ad alcune puntualizzazioni, diciamo da “esperti” della materia, avendo fondato questo movimento 16 anni fa proprio sulla base dello studio attento e (a nostro avviso) innovativo di quelle radici politico-ideali. Anche pensando al profilo fortemente progressista se non rivoluzionario delle forze storiche di riferimento, quali Giustizia e Libertà e Partito d’Azione (Gobetti parlava esplicitamente di “rivoluzione liberale”, suscitando le ire di un liberale “classico” come Croce!), fin da allora ci era parsa profondamente sbagliata la lettura moderata dell’incontro tra liberalismo e socialismo, come se si trattasse di unire una destra “perbene” e una sinistra “riformista” dentro un contenitore inevitabilmente di centro.

Molti di noi provenivano dalla tradizione comunista e socialista rivoluzionaria, ma chi conosce la storia capiva benissimo il senso di quell’operazione, che invece sconcertava alcuni comunisti “duri e puri”. Significativo, ad esempio, il pubblico elogio di Marco Ferrando, grande leader del piccolo Partito comunista dei lavoratori, che dopo 10 minuti di confronto con noi di MRS aveva snocciolato con soddisfazione e rispetto tutta la gloriosa lista dei nostri possibili maestri ideali, da Rosa Luxemburg a Lelio Basso… E proprio per smarcarci dai moderati – eredi magari del vecchio partito repubblicano che si richiamava a Mazzini – avevamo deciso di definire “radicalsocialista” (e non liberalsocialista) il nuovo movimento, con riferimento ad un compito e progetto di trasformazioni profonde e radicali che sollecitavamo con urgenza per il Paese.

Ma perché il liberalsocialismo, almeno per noi, non è per niente “di centro”? Sarebbe facile rispondere: per via della destra sgangherata che abbiamo in Italia (bigotta o leghista o berlusconiana o populista o qualunquista o fascista) tale da rendere poco simmetrica (diciamo così) quell’operazione politica di prendere “il meglio” da una parte e dall’altra che in altri Paesi un senso potrebbe anche averlo (ammesso e non concesso che sia facile salvare qualcosa anche dell’attuale sinistra!). Non è solo questo. Si tratta di stabilire tutta la differenza del mondo tra un’operazione di mero accostamento tra liberalismo e socialismo ed invece un progetto dialettico di compenetrazione se non di fusione tra i due concetti (e qui Carlo Calogero, uno dei fondatori del vecchio Partito d’Azione, potrebbe insegnarci ancora molto). È senz’altro “centrista”, ma concettualmente sbagliata, l’idea che nel liberalsocialismo il liberalismo (anzi dovremmo dire il liberismo) debba “moderare” lo statalismo, mentre il ruolo del governo “controllare” e “temperare” il capitalismo), che è un po’ quello che tutti i governi di centrodestra e centrosinistra sono costretti “naturalmente” a fare per gestire la situazione di fatto esistente in Italia, dove il connubio è tra il peggio dell’interventismo statale (altro che socialdemocrazia!) e la versione più disordinata e anomala del libero mercato. Il vero obiettivo del liberalsocialismo è un altro, molto diverso e assolutamente rivoluzionario da qualunque dei “due lati” lo si guardi: si tratta da una parte di rendere davvero libero il mercato, contro le deformazioni affaristiche, oligarchiche e monopolistiche generate dal capitalismo stesso, che sfociano in comportamenti mafiosi e criminali (non a caso Noam Chomsky parlava del dovere di «difendere il libero mercato dai… liberi mercanti»!), e dall’altra di democratizzare al massimo lo Stato con la presenza di molteplici centri decisionali e propulsivi, uniti al massimo di libertà politica e partecipazione e sovranità popolare. I diritti sbandierati dal liberalismo, fino a prova contraria, debbono valere per tutti (la “libertà eguale” che John Rawls metteva a fondamento nell’ultima teoria del contratto sociale) e non soltanto per la ristretta élite a cui li ha confinati il liberalismo “reale” (conservatore); e dall’altro lato il “dirigismo” statale non può avere nulla di autocratico e totalitario, ma anzi esaltare e valorizzare quella base economica plurale, “diffusa” e competitiva (nel senso migliore del termine) in grado di produrre nella maniera più efficiente la ricchezza da redistribuire, altrimenti, spegnendo quella fonte, si “socializzerebbe” solo la miseria. Insomma: un mercato davvero libero e “orizzontale” può far scendere i prezzi e migliorare la qualità dei beni materiali, a tutto vantaggio dei cittadini, e per garantire questa base serve una forte e autorevole (non autoritaria!) presenza dello Stato. E uno stato chiamato a scongiurare mafie e monopoli privati eviterà come la peste anche quelli pubblici, mettendo nelle mani dei cittadini (e non dei capi-partito) tutte le leve effettive del potere.

In ultima analisi, si tratta di un progetto doppiamente rivoluzionario, che cambia in profondità sia lo stato che il mercato proprio grazie alla loro unione dialettica e influenza reciproca. Il socialismo si realizza nella sua veste più libertaria, il liberalismo in quella più equa e sociale. Questo, per noi, è il vero liberalsocialismo: altro che centro moderato! Non estremista (perché non siamo “ideologici”) ma certamente radicale.

G.I.

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