Giuseppe Fanelli, quello strano patriota… anarchico

di GIANCARLO IACCHINI

Il destino di Giuseppe Fanelli, singolare “demosocialista” napoletano del Risorgimento (1827-1877), è stato quello di spiazzare sempre tutti quanti. Mazzini gli fa organizzare “in loco” la celebre spedizione di Carlo Pisacane, ma Fanelli gli risponde con onestà: «Qui nel Mezzogiorno la situazione sociale è esplosiva… («Bene – pensa Mazzini – muoviamoci allora!»)… però le masse non sono ancora mature». «Cioè?». «Cioè non è detto che si muovano!». «Ma le plebi non possono aspettare!». «Finché restano “plebi” e non diventano “popolo”, son destinate ad aspettare per forza, perché rimangono in mano alla Chiesa e ai reazionari. Lo dice anche Marx nel Manifesto». Mazzini non ci capisce più niente, e sbotta con Pisacane: «Senti, decidi tu e buonanotte». «Io parto lo stesso – gli risponde quello – e al diavolo Fanelli con tutti i suoi dubbi. Lui sembra un moderato, da quanto è prudente!… Del resto basta vedere come si veste: è così elegante che ti viene il sospetto che la rivolta contro i signori sia proprio lui a non volerla, non le plebi del Sud… Altro che Marx!». Così Pisacane parte per mare verso la nobile ma tragica spedizione di Sapri, 3 anni prima della vittoriosa impresa garibaldina. «Io ve l’avevo detto – mormora affranto Fanelli dopo la strage dei “300 giovani e forti” – L’idealismo a volte è controproducente; serve piuttosto un’analisi realistica e meno retorica. Vero Mazzini?».

Il padre della Giovine Italia è indignato, punto sul vivo, e trova in quello strano agitatore napoletano un comodo capro espiatorio. Manda all’assalto il suo amico Giovanni Nicotera, che accusa apertamente Fanelli sui giornali per il martirio di Pisacane. «Sei un bastardo!», lo apostrofa senza mezzi termini Fanelli incontrandolo per strada, e gli salta addosso. Devono intervenire i gendarmi per salvarlo dalla furia del “moderato” napoletano, il cui sangue si rivela in questa occasione sufficientemente rosso: «Dai, bravo, adesso denunciami alla giustizia borghese!», gli urla l’aggressore mentre viene a fatica allontanato dalla vittima. «No, io ti denuncio ai probiviri mazziniani!». «Ma chi se ne frega! Mi avete rotto tutti quanti, voi democratici, compresi Mazzini e Garibaldi. Io adesso sono anarchico; anzi, socialista libertario! E da oggi chiamatemi col mio nome di battaglia: Kilburn».

E così, mentre si sta per “fare l’Italia” senza di lui – inviso com’è, oramai, a una parte dei patrioti più influenti – il Nostro va a conoscere Bakunin, che ne rimane piacevolmente colpito: «Sei tu il mio uomo in Italia!». Ma spiazza subito anche il nuovo amico russo, che aveva appena smesso di chiedergli conto dell’ardore patriottico giovanile: «Perché hai partecipato alla guerra antiaustriaca del ’48 a fianco di Mazzini?»; «Se è per questo anche alla difesa della Repubblica Romana… ma ora i tempi son cambiati». E come no: basta un fischio di Garibaldi e lo ritroviamo coi Mille, dove viene anche ferito in battaglia (“l’eroe di Calatafimi”, lo definisce Nino Bixio).

Qualcuno sostiene che tanto zelo patriottico fosse dovuto anche al desiderio di cancellare in fretta le ombre sulla spedizione di Pisacane. Bakunin lo “perdona” e lo porta con lui a Londra, alla riunione dell’Internazionale, dove gli presenta il mitico Karl Marx, che gli dice: «In Italia ho un valido compagno, Carlo Cafiero… Prendi contatto con lui». Kilburn lo fa, ma per convincere Cafiero ad abbandonare Marx e a schierarsi con Bakunin: «Il socialismo libertario e autogestito è l’antidoto migliore ad ogni autoritarismo statale». E così è sistemato anche Marx. Bakunin gongola, pensando di aver conquistato definitivamente alla sua causa quell’italica mina vagante. Ma Garibaldi “fischia” ancora e il buon Fanelli non resiste al richiamo della causa nazionale: si rimette il fucile in spalla e parte prima per il Nordest, per annettere il Veneto all’Italia monarchica con l’aiuto dei prussiani, e poi per Mentana, nel tentativo di liberare anche Roma difesa dai francesi di Napoleone III alleati del papa: un disastro per le “camicie rosse” e la resa definitiva ai piani e ai tempi della monarchia sabauda, che il 20 settembre di tre anni dopo – caduto a Sedàn il Secondo Impero francese – aprirà la storica breccia di Porta Pia nel disinteresse ormai palese dell’ala democratico-repubblicana.

Fanelli è deluso da tutti, e ha deluso un po’ tutti. Ma vuole incontrare un’ultima volta Mazzini e così si rivolge ad una gentile e infaticabile signora ebrea, Sara Levi Nathan, che ospita spesso nella sua casa di Pesaro i protagonisti del Risorgimento, compreso il vecchio apostolo della “repubblica democratica” ancora perseguitato dall’Italia monarchica e liberale e costretto a girare la penisola sotto falso nome. Sara sta amorevolmente preparando per lui, all’uncinetto, un caldo scialle di lana, ed è ben contenta di fare da ponte – e possibilmente da rappacificatrice – tra i due patrioti un tempo amici e collaboratori. «Mi hai tradito due volte – gli rinfaccia Mazzini appena vede spuntare il napoletano nel salotto della Nathan – Una volta coi Savoia e i loro “utili idioti” e la seconda con quel pazzo di Bakunin». Fanelli non fa una piega: «Avevo in mente solo la libertà; dell’Italia e del popolo. Sono rimasto repubblicano nell’animo e questa fede profonda non l’ho mai tradita». «Ti definiresti dunque ancora mazziniano?». «Potrei… ma a due condizioni: che dal tuo motto “Dio e popolo” tu tolga il primo, che con la politica non c’entra, e che nel secondo tu metta finalmente la questione sociale, senza la quale anche la parola “popolo” resta vuota metafisica». L’eco del potente “vaffa” mazziniano risuonò immediato e imperioso fino alla piazza pesarese (“del Popolo”, appunto).

Non pago, Fanelli continua a spiazzare: accetta di fare il deputato del Regno fino al 1874, criticando da sinistra la Sinistra di Depretis ma lasciando basiti i suoi compagni con posizioni insospettabili, come quando chiede al governo di rafforzare la vigilanza sui beni dei “signori” meridionali minacciati dai briganti. «Ma scusi, lei non era socialista?», gli chiedono i giornalisti. E lui, stupito del loro stupore: «E allora? Secondo voi un socialista dovrebbe approvare il furto e l’omicidio?». In parlamento non riescono a inquadrarlo: «È un moderato»; «no, no: è un radicale»; «garibaldino e mazziniano!»; «ma se è il braccio destro di Bakunin!». Poi riecco il solito Nicotera calare il carico da novanta. Appena diventato ministro dell’Interno del governo Depretis, bolla Fanelli in questo modo: «Uomo senza criterio, ozioso e perduto come tutti i socialisti». Fanelli stavolta sembra alzare le spalle, e insieme a Bakunin – a sua volta ormai rassegnato allo zigzagare ideologico del compagno italiano – fonda “l’associazione democratico-sociale Libertà e Giustizia”. In uno dei tanti convegni a cui partecipa, incrocia l’odiato Nicotera: cala il gelo sui convenuti, che temono il peggio. Il ministro è impietrito. Fanelli gli si avvicina a grandi falcate e a un passo dal “bersaglio” apre le braccia e si stringe allo sbigottito avversario in un abbraccio plateale. Riappacificazione? Molto probabilmente no: il ministro rappresenta per Fanelli quello che il… cavallo torinese rappresenterà per Nietzsche una decina d’anni più tardi: l’insorgere di una condizione psicologica molto vicina alla follia. Fanelli la chiama depressione (o “mal di vivere” nel linguaggio d’allora) e si ritira in solitudine facendosi perfino ricoverare in una clinica psichiatrica a Capodichino.

Poco tempo prima, con la “schizofrenia” a cui aveva abituato un po’ tutti – ma da lui considerata una fine dialettica politica che pochi arrivano a comprendere – aveva contribuito a fondare l’Internazionale socialista in Spagna, dichiarando però contemporaneamente di non credere più alle masse popolari come forza rivoluzionaria, e forse nemmeno alla “rivoluzione”. La morte di Michail Bakunin, nel 1876, aggrava l’umor nero e la sfiducia cosmica che ormai lo attanagliano: fa in tempo a tuonare contro il nuovo governo della Sinistra, rea di «aver tradito tutti gli ideali sociali che i suoi uomini avevano sostenuto in gioventù». Muore in solitudine il 5 gennaio 1877. Carlo Cafiero, incaricato dell’orazione funebre sulla sua tomba, fatica a dare un senso alla fine repentina (a 50 anni) dell’amletico compagno: «In attesa della rivoluzione italiana e mondiale, ecco come si lasciano morire i nostri amici di tante battaglie: o in prigione, o in esilio, oppure… oppure… oppure così».

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